di Maurizio Muraglia
Il tema dell’educazione oggi deve confrontarsi col tema dei valori e con la prospettiva laica del relativismo culturale che caratterizza il nostro tempo. Il rapporto tra le generazioni si è fatto complesso perché complessa è diventata la possibilità di una mera trasmissione di depositi valoriali ricevuti dalle generazioni precedenti. E’ diventato complesso il movimento della tradizione, che aveva nutrito le dinamiche educative di molti secoli. I riferimenti sono diventati plurali e la fisionomia di un giovane, oggi, si modella in forme molto meno dirette e monoreferenziali, dovendo fare i conti con una sorta di policentrismo dell’autorità che rende difficile e forse implausibile trovare bussole certe e ricette infallibili. Sembra rivivere in campo educativo il labirinto calviniano, una sorta di percorso il cui sbocco si rivela incerto, ammesso anche in questo caso che si possa o si debba parlare di uno sbocco. Cos’è oggi giusto, bello, vero? In che cosa consiste la virtù?
Qual è l’esito di una buona educazione nel nostro tempo? Un essere umano compiuto? Un cittadino? Un buon cittadino? E cos’è un essere umano compiuto? Si tratta di interrogativi che forse un tempo potevano ottenere risposte facili, ma oggi per chi è chiamato ad educare in prima linea non è affatto facile delineare i tratti del giovane ben educato. Forse l’esperienza insegna, a contatto con i giovani, che occorre battere sentieri nuovi.
Perché?
I ragazzi nati a partire dagli anni Novanta vivono uno scenario antropologico del tutto inedito, che richiede scelte educative altrettanto inedite ed una riflessione sull’educazione non schiacciata sulla riproposizione dei modelli conosciuti. I nostri ragazzi, infatti, subiscono continue mutazioni a contatto con nuove forme espressive e nuove modalità relazionali, e questo interpella seriamente il mondo degli adulti. E’ sorto un nuovo soggetto, chiamato Narciso, che vive la stretta “dipendenza dal riconoscimento da parte del mondo in cui vive” (Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi).
Occorre a questo punto rinegoziare una vera e propria mappa di significati educativi: autenticità, ascolto, profondità, empatia, convivialità, ma senza rinunciare al principio di autorità. Senza autorità infatti non si dà processo educativo. L’educazione avviene laddove si incontrano adulti con non adulti. Questo rapporto, oggi, va rivisitato senza perdere il valore fondativo del rapporto stesso.
La parola autorità implica la capacità di accrescere le potenzialità dell’altro. Anche l’etimo di “educazione”, col suo “fare uscire da”, consente di riscoprire pratiche socratiche. Va più che in passato esplicitata la dimensione cooperativa e di complicità del processo educativo. “Fallo perché è importante per te, non perché lo dico io”. Ciò richiede forte decentratura da se stessi e capacità di essere indicatori autorevoli di qualcosa che trascende educatore ed educando. Dunque non è rinunciabile l’educazione e neppure l’autorità. Occorrono però ingredienti capaci di mettere entrambe al passo con la contemporaneità (stili sociali di democrazia, partecipazione, pluralismo, che permettano di sfidare ogni forma strisciante di omologazione, sudditanza, appiattimento). Alcune piste auree si impongono, nella relazione con i ragazzi: saper ascoltare; praticare l’empatia (pur nell’asimmetria); saper essere autentici; avere ed esplicitare le proprie idee.
Soprattutto però è importante, all’interno di quest’orizzonte, saper fare i conti col tema della conflittualità per restituirle la sua portata educativa. E’ necessario legare la conflittualità al senso di colpa dell’attuale adulto, che entra in stato di colpa quando infligge dolore a Narciso, che non può tollerare il dolore. Quando entra in stato di colpa, l’attuale adulto finisce per chiamare in causa la propria storia personale ed i propri conflitti interiori irrisolti. La sfida diventa saper tollerare il dolore di coloro cui si infligge un divieto.
Un’altra irrinunciabilità consiste nella necessità pedagogica del modello. Il modello è l’adulto da imitare. Si tratta di qualcosa di apparentemente simile al passato, ma anche qui occorre innovare. Un modello non deve essere per forza inautentico e inattuale. Non dev’essere perfetto e immune da dubbi, incertezze, fragilità. Non è la perfezione, oggi, che fa di un modello un modello. Si può essere esempi, o esemplari, non in quanto perfetti, ma in quanto veri. L’adulto non deve mai perdere di vista il limite che lo costituisce come essere umano. Ciò non lo induce a venir meno alla possibilità di infliggere dolore e sofferenza nell’orizzonte educativo. Ma colora la sua azione educativa di umanità.
Fin qui gli stili educativi.
Ma i contenuti? I contenuti educativi?
Due piste educative forti possono oggi leggere efficacemente il nostro tempo: la pista dell’identità e quella del dialogo che si richiamano reciprocamente. In tempi di intercultura diventa importante saper educare alla costruzione di identità aperte, capaci di accogliere, dialogare, integrare senza snaturarsi. E’ un equilibrio sottile, che la sapienza dell’educazione deve saper praticare. Educare alle radici, ma educare al rispetto delle altre radici. Diffidare di ogni forma di chiusura, di discriminazione, di arroccamento identitario.
C’è chi parla di formazione della coscienza, come luogo del discernimento critico, delle scelte. Anche qui occorre prendere le distanze da concezioni statiche della “verità”, che la coscienza sarebbe chiamata a riconoscere. Sempre più la coscienza si rivela quale luogo della mediazione tra istanze diversamente plausibili. Il criterio di plausibilità sembra imporsi sul criterio di verità assoluta.
Cos’è oggi che rende un adulto degno di essere ascoltato e “imitato”? Visto come modello nel senso prima indicato?
Probabilmente la significatività della sua esperienza di vita. Cosa intendere per esperienza e per significatività? Il solo fatto che abbia fatto delle cose? No, si tratta della qualità riflessiva che egli ha introdotto negli eventi che ha vissuto. Si tratta della sua capacità di avere tratto apprendimento dagli eventi vissuti. La vita diventa esperienza, e consente la crescita del soggetto, quando i suoi accadimenti sono sottoposti a riflessione, a giudizio, a interpretazione, anche quando sono accadimenti frutto di errori personali. Anzi, l’errore diviene in questa prospettiva un potentissimo fattore educativo (“non fare quello che ho fatto io”).
L’adulto che narra è un testimone della vita. Egli non può pretendere di impedire al più piccolo l’esperienza. Ma può attrezzarlo per affrontare l’esperienza con alcuni focus di attenzione, con alcune vigilanze, con uno stile di pensiero accorto e attento. Educare non è né tenere ingabbiati né mandare allo sbaraglio. Educare è creare le condizioni perché si vada incontro alla vita con una certa “segnaletica stradale”, fatta di pochi e fondamentali centri di attenzione. Educare oggi è accompagnare, essere compagni di strada disponendo di una visione più esperta, nel senso etimologico: la visione di chi ha tentato strade, ha sbagliato, ha ritentato e tenta ancora, tenta incessantemente.
Occorre evitaresoprattutto di percorrere l’educazione attraverso premi e punizioni, come motivazioni estrinseche, che non fanno parte di un rapporto educativo maturo. Si tratta di lavorare sulle motivazioni intrinseche, su spinte che vengono dal profondo. Uno dei più potenti fattori di costruzione delle motivazioni intrinseche sono le narrazioni. Più che prediche, occorre proporre storie. Storie autobiografiche, storie accadute ad altri, ma anche storie tratte da oggetti culturali, libri, racconti. La migliore educatrice è la storia come campo di vicende umane, ma ri-assunta nei suoi significati (resa significativa).
L’adultità non si oppone alla debolezza o all’autenticità. Dire adultità significa dire autenticità umana. Adultità è prendere sul serio la vita, prendersi cura degli altri, avere un progetto, uno stile, un’intenzione seria nei confronti di chi si educa. Adultità non è essere privi di incertezze. L’adulto dice al più giovane “speriamo” perché la speranza unisce grandi e piccoli nel desiderio.
Nel passato l’educazione riteneva che il desiderio fosse una minaccia, da contenere attraverso divieti, castighi, proposizione di valori. E’ vero, il desiderio può essere una minaccia per tutti, anche per l’adulto, che deve sapere mettere a tema il suo desiderio. Ma il tema del desiderio in educazione è una risorsa. Un adulto deve emanare desiderio, deve contagiare desiderio. In tempi di apatia e cinismo giovanile, servono adulti provvisti di desiderio, di attesa e di speranza. Non ingenuo ottimismo, ma consapevolezza di realtà abitata da speranza.
Anche l’adulto impara. Grande è la soddisfazione di un ragazzo quando, pur dentro l’asimmetria e senza fingere, l’adulto impara qualcosa da lui, dal suo mondo interiore. Grande impatto educativo hanno frasi come “Ci penserò a quello che mi hai detto”. La chiameremo co-esistenza ed è forse il modo migliore per dare un nome all’educazione del nostro tempo. L’adulto e il giovane coesistono, esistono insieme, camminano insieme per le strade del mondo e si parlano. Questo non rende la loro relazione simmetrica e amicale. Simmetria e amicalità sono tra pari.
Due nemici dell’educazione, così come la stiamo delineando, sono il moralismo e paternalismo. Avere intenzionalità educativa non vuol dire assumere ruoli caricaturali (“siccome io ti devo educare, ti dico…”). Forse questo valeva per il passato, ma oggi la musica è cambiata. L’intenzionalità educativa è molto più implicita e discreta, molto più sottile. La si lascia intendere a partire dal contesto. In famiglia, a scuola o in qualche altro contesto di educazione formalizzata, è evidente che c’è qualcosa che si insegna e qualcosa che si impara. Però i tratti di quest’intenzionalità educativa sono tratti dove forte è la dimensione relazionale, l’affetto, la custodia. Fuori da queste dimensioni c’è solo verbalismo autoritario. L’autorevolezza invece si nutre di relazioni anche emotivamente significative.
La dimensione emotiva dell’educazione è forse quella meno esplorata ma occorre non trascurarla. Occorrono adulti dall’intelligenza emotiva spiccata per percorrere i sentieri dell’educazione nel nostro tempo. Si tratta, forse molto più che in passato, di saper governare le proprie emozioni, di saperle leggere e di insegnare ai giovani a fare altrettanto. Si tratta di non nascondere ai giovani le proprie emozioni, se si giudica che l’espressione della propria emozione rappresenti comunque un’iniezione di umanità. Dare importanza alla dimensione emotiva dell’educazione significa oggi agire nella direzione della completezza. Troppe volte la scuola si attesta sulla sola componente cognitiva dimenticando che l’esperienza dell’apprendere è fortemente legata alla motivazione, all’interesse, al coinvolgimento emotivo degli allievi. Invece è importante oggi non trascurare le emozioni, che vivono una sorte curiosa. Nel tempo dell’educazione autoritaria e trasmissiva, lo spazio per le emozioni era scarso. Si trattava di interiorizzare e ubbidire. Il paradigma era di carattere prescrittivo. Con gli anni Settanta le emozioni si fecero spazio nell’orizzonte educativo, condotte dai movimenti rivoluzionari e contestatari. Ma l’avvento delle tecnologie comunicative di massa, del web e di tutte le forme espressive che oggi si impongono nelle vite dei giovani rischia di far precipitare le emozioni in un nuovo limbo. Qualcuno ha parlato di analfabetismo emotivo dei nostri giovani, che bruciano spesso i tempi dei loro desideri o addirittura colorano emotivamente relazioni ed esperienze che invece hanno soltanto carattere virtuale. Tutto questo rende necessaria un’alfabetizzazione emotiva di cui però possono farsi carico soggetti emotivamente maturi. Questa oggi è la vera sfida: dove attingono la propria maturità emotiva gli educatori del nostro tempo? Che uomini e donne occorre essere per formare altri uomini e donne? In ultima analisi quando si parla di educazione ci si rende conto che il problema dell’educazione riguarda maggiormente gli adulti che i ragazzi. Lo abbiamo visto. Essere adulti oggi richiede nuove forme di umanizzazione. Occorre un sapere pedagogico capace di dire una parola su cosa significhi oggi essere adulti e cosa significhi doverlo diventare. Senza pericolose fughe nel passato e senza altrettanto pericolosi salti nel buio.
Testo della relazione tenuta dall’autore in occasione del Convegno regionale Agesci, svoltosi a S.Giovanni la Punta (CT) il 11.01.2014.
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