di Nino Insinga
Spinto dalla curiosità, ieri sera sono andato a vedere Philomena. Un film di cui si è parlato molto in questi ultimi tempi e che a più d’uno ha fatto storcere il naso: “No, questi drammoni io non li tollero” aveva detto una nostra amica, rifiutando l’invito a vederlo insieme, e, fin qui, bene: neanch’io, dicevo tra me, amo le storie strappalacrime di madri che ritrovano i figli tra mille peripezie (era questo nella sostanza il tema del film, secondo quanto mi ero immaginato dal breve trailer intravisto alla tv), ma poi, allettato dal valore della protagonista Judi Dench, che avevo ammirato in The Queen, facendo mio il motto sentimento sì, sentimentalismo mai, non ho resistito e sono andato con Chiara e Matilde a vederlo.
All’inizio, si è proiettati in un mondo ostile e freddo: è l’Irlanda dei primi anni cinquanta, con le sue immense vallate verdi, con la sua natura, qui più minacciosa che accogliente, a riempire lo schermo. Philomena Lee, infermiera in pensione, cattolica praticante, ha avuto un bambino, Anthony, dopo una brevissima relazione con un ragazzo incontrato al luna park.
Abbandonata dal padre in tenera età, povera in canna, è costretta a fare ricorso alle suore cattoliche del Sacro Cuore, per trovare un tetto, mantenersi col duro lavoro di lavandaia, e tenere l’amatissimo bambino, che secondo le severissime regole dell’ordine, può incontrare nei locali del Convento soltanto per un’ora alla settimana. Ma quello che non sa e che le rivelerà l’appassionata indagine del giornalista (Martin Sixsmith, interpretato da un ottimo Steve Coogan, co-sceneggiatore del film) che l’aiuterà nell’affannosa ricerca del figlio strappatole via a forza cinquant’anni prima da una misteriosa famiglia – è che il Convento è in realtà un serbatoio per gli Americani desiderosi di adottare bambini. Piccoli che le suore mettono tranquillamente in vendita al prezzo di mille sterline, salvo a seppellirli con le loro madri in un campo dinanzi al Convento, quando il parto delle poverette (da loro stesse assistite) ha avuto esito infausto. Fin qui il primo tempo, accolto devo dire da un pubblico sparuto e abbastanza silenzioso.
Vedendo Chiara, accanto a me, poco convinta e leggermente annoiata da un ritmo non proprio travolgente del film, la rinfrancavo, pensando che il bello sarebbe venuto nel secondo tempo. E, a conti fatti, il film non ha tradito le mie aspettative, ma anzi mi ha dato un’occasione per riflettere sulla sostanza del Cristianesimo. Ovviamente, non rivelerò la trama, ma dirò solo che nell’ultima scena, grazie agli sforzi del giornalista e di Philomena, verrà messa a nudo la colpevole omertà che avvolge ancora le vicende del Convento.
Qui, di fronte alla sua aguzzina Suor Hildegarde, che le ha tolto il figlio (chiusa e quasi pietrificata da un fanatismo che nulla ha che vedere con la religione), Philomena – nel ricordo della pietas della suora giovane che, sfidando il divieto della Superiora, le ha scattato l’unica foto di Anthony bambino rimastale – pronuncia le fatidiche parole: “Mi costa molto, ma io le perdono”.
Sta in ciò, a mio parere, il valore del film e il suo invito a riflettere sul senso profondo del perdono cristiano, perdono che rifulge ancora di più, al paragone delle parole che lo sconvolto Martin rivolge alla suora: “Io, al posto suo non l’avrei perdonata”. Il film si chiude con Philomena che, da pura di cuore, da persona semplice, racconta a Martin la trama dell’ultimo romanzetto rosa che ha appena incominciato a leggere.
E’ stato allora, uscendo dal cinema, che ho ripensato a un altro splendido film che propone valori umani, anche se del tutto alieni dalla prospettiva cristiana. Intendo riferirmi a Blue Jasmine di Woody Allen. In cui il messaggio, a mio parere, non è molto diverso da quello di Philomena: il mondo, sembra dire Allen, è dei semplici, dei puri di cuore, dell’ umile commessa di supermercato Ginger insomma. E’ lei, infatti, col suo tratto accattivante e sincero, e non la frantumata, problematicissima e infelice sorella Jasmine, la protagonista positiva della storia e di una vita, che trova, per così dire, il senso ultimo nell’ amore per il suo uomo e per i figli.
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