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Per non dover sperare che la Svizzera ci invada

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di Giuseppe Savagnone

 

 

 

   Il 25 maggio del 2013 veniva solennemente beatificato a Palermo don Pino Puglisi, assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993, martire della fede e simbolo, ormai per sempre vivente,  di una fede che ama la terra e che si impegna, fino allo spargimento del sangue,  per coloro che la abitano.

 

   Da questo importante evento simbolico sono passati ormai tre anni ed è lecito chiedersi se ad esso, come era negli auspici, si sia accompagnata effettivamente una svolta negli stili della vita sociale e  politica – o almeno di quella ecclesiale – della Sicilia. Dove per “stili della vita” non intendo le denunzie e i proclami contro la mafia, sempre volentieri reiterati. Perché i problemi della nostra Isola non si risolvono con gli slogan, ma con scelte concrete. E queste non possono riguardare solo la lotta contro la criminalità organizzata, ma devono cambiare il tessuto sociale e culturale entro cui essa, malgrado le singole sconfitte e gli arresti dei boss,  continua a prosperare.

 

   In realtà, per quanto riguarda la società civile e la situazione amministrativa, lo scenario della realtà siciliana, a più di vent’anni dalla morte di don Puglisi e a tre dal suo innalzamento agli altari, si è fatto sempre più cupo. Il «Giornale di Sicilia» del 25 maggio scorso ha pubblicato un quadro in cui, basandosi su dati ufficiali, confronta la situazione dell’Isola con quella del resto d’Italia (neppure quella, peraltro, rosea). Anzi d’Europa, perché si parte dal fatto che su 206 regioni europee, fra le 30 che hanno la peggiore amministrazione, ce ne sono 7 italiane e la Sicilia è una di queste.

 

   Scarsezza di personale? Non precisamente. Sempre da questi dati risulta che in Sicilia  per ogni mille abitanti ci sono più di 5 impiegati regionali; nel resto d’Italia ce ne sono meno di 2.  Cosicché nella sola Regione Siciliana sono occupati il 24% degli impiegati e il 35% dei funzionari regionali di tutta l’Italia.

 

   Forse sono demotivati, perché sfruttati? La risposta è nella stessa tabella prima citata: mentre i lavoratori italiani vanno in pensione con l’80% dello stipendio degli ultimi dieci anni,  i dipendenti della Regione Siciliana hanno l’85% dello stipendio degli ultimi cinque anni (quindi di quello massimo raggiunto).

 

   Inoltre, mentre nel resto d’Italia ci si pone il problema  di bilanciare le  pensioni in modo da assicurarle anche alle future generazioni, da «Repubblica Palermo» del 13 maggio scorso apprendiamo che in Sicilia la Regione mantiene duemila ex dipendenti, regolarmente pensionati, che oggi hanno ancora meno di 59 anni, di cui ben 800 non hanno neppure 54 anni, 150 meno di 49 anni, 50 meno di 44 anni! Ma anche prescindendo da questa assurda proliferazione di baby pensionati, colpisce il fatto che una Regione che lancia continui SOS  allo Stato (che peraltro ha pure le sue responsabilità) paghi ben 16 mila pensioni con assegno superiore all’ultima busta paga, in base a un meccanismo che prevedeva il 50 per cento dell’ultimo stipendio, più il 2,5 per cento per ogni anno di servizio. Tutto legale naturalmente, in una situazione – che peraltro purtroppo non riguarda solo la Sicilia – in cui le leggi le fanno i membri della casta che dovrà beneficiarne.

 

   Il confronto con altre regioni italiane non è meno spietato se si passa dall’amministrazione regionale a quella comunale. Ancora sul «Giornale di Sicilia» leggiamo che nel Friuli il 100% dei comuni garantisce gli asili nido; in Sicilia lo fa solo il 35% dei comuni. Nel Trentino il 100% dei comuni  dà assistenza agli anziani; in Sicilia ci riesce solo il 73% dei comuni. Per non parlare degli spaventosi disservizi nella raccolta dell’immondizia, nella manutenzione delle strade, nella gestione dei trasporti pubblici, etc. Però pure in Sicilia i comuni “assistono”, anche se in un altro modo, del tutto improprio: nell’Isola ci sono 10 dipendenti comunali ogni mille abitanti: il 47% in più della media italiana. E, per pagare i loro stipendi, ogni singolo cittadino siciliano spende in media 309 euro; la media italiana è 240 euro. Col risultato che i comuni siciliani devono destinare quasi tutto il loro bilancio – 4,5 miliardi di euro – alla spesa corrente (in prevalenza, stipendi) e solo un decimo di questa spesa – 450 milioni di euro –  a investimenti che potrebbero essere produttivi per il futuro.

 

   Davanti a questi numeri viene spontaneo chiedersi se la mafia sia soltanto nei quartieri a rischio e nelle tane dei boss, o se non abbia il suo “brodo di coltura” in un contesto disastroso di privilegio e di assistenzialismo clientelare che nessuna operazione dei carabinieri o della polizia potrà smantellare.

 

   Che cosa sperare, dunque? Un’ipotesi potrebbe essere che la Sicilia, valendosi della sua autonomia, dichiari guerra alla Svizzera, la perda e ne venga invasa. Ma è solo un sogno, impossibile per motivi costituzionali e storici. Oppure… oppure che i siciliani si rendano conto che di questo passo il destino della loro terra è di entrare a far parte del Terzo mondo e ritrovino l’energia per reagire al degrado che la umilia.

 

   E’ qui che entrano in gioco il ricordo di don Pino Puglisi e il possibile ruolo della Chiesa. Perché le radici di questo degrado non sono di natura economica, e neppure solo politica, ma prima di tutto culturale ed etica. È a questo livello, dunque, che è urgente una riscossa. E qui si tratta non di parlare a una classe politica probabilmente irrecuperabile, ma di consentirne la radicale sostituzione con un’azione educativa capillare rivolta alla base della popolazione. L’unica che può fare questo, oggi, è la Chiesa. La Chiesa, grazie alla rete delle parrocchie, ha un rapporto puntuale col territorio e con le persone che ci vivono. E la Chiesa ha un messaggio non solo religioso, ma etico e civile, da comunicare, grazie al patrimonio di pensiero presente nella sua dottrina sociale.

 

   Non è un partito che essa deve fare nascere, ma una  nuova coscienza civile nella gente che, a sua volta, dovrà eleggere i suoi rappresentanti alla luce di questa prospettiva. Le scelte politiche particolari potranno poi divergere, ma sarà comune l’orizzonte valoriale di fondo, costituito dal desiderio di servire il bene comune, anche se interpretato in modi differenti. È questo che oggi manca totalmente.

 

   Per fare ciò, però, lo stile della nostra pastorale dovrà passare da una logica prevalentemente ritualista, concentrata solo sul catechismo per la prima comunione e sull’amministrazione dei sacramenti, a uno sforzo prioritario di formazione delle coscienze. Come faceva padre Puglisi. Sarebbe il solo modo serio di onorarne la memoria. E anche di non ridurci a sperare che la Svizzera ci invada.

 

 

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