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Il terremoto, i parolai e il mistero del dolore umano

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di Luciano Sesta

 

In uno scritto pubblicato nel 1710, il filosofo Leibniz parlò del mondo in cui viviamo come del “migliore dei mondi possibili”. Qualche anno dopo, per tragica ironia della sorte, uno spaventoso terremoto provocò a Lisbona la morte di 30.000 persone. Proprio riferendosi a questo episodio, un altro filosofo, l’illuminista Voltaire, ha scritto un pungente romanzo, in cui si è fatto beffe dell’ingenuo ottimismo di Leibniz, mettendo la sua dottrina sul “migliore dei mondi possibili” in bocca a un personaggio chiamato Pangloss, che significa “tutto (pân) parole (glôssa)”, per sottolineare come qualunque tentativo di trovare una spiegazione alla sofferenza umana si riduca a parola vuota e irriverente.

 

    Anche in occasione della dolorosissima calamità che ha colpito il centro Italia, purtroppo, si è esibito qualche Pangloss. Esaurita l’emergenza delle operazioni di soccorso e di recupero delle vittime, ha preso avvio la consueta “caccia ai responsabili”. Ci si è chiesti come sia potuto accadere che interi centri abitati siano crollati come castelli di carta, fino a quando, come spesso accade in casi simili, le espressioni “corruzione politica”, “edilizia irresponsabile” e “negligenza umana” hanno messo tutti d’accordo, con la rassicurante illusione di aver individuato le vere cause di ciò che, così si dice, non deve ripetersi mai più. L’idea che anche di fronte a un disastro naturale le responsabilità siano sempre e solo umane non è affatto scontata, e risale al pregiudizio illuministico secondo cui l’uomo sarebbe un eroe, naturalmente buono, in lotta contro un malum mundi destinato a rimanere sconfitto dal progresso della scienza e dalla saggezza morale e politica di chi deve scrupolosamente applicarne le scoperte. Come se il male non fosse anche dentro di noi, e come se, quando siamo in grado di combatterlo sinceramente e con impegno, non continuasse a colpirci dolorosamente.

 

 

    L’enfasi, poi, con cui alcuni esponenti del governo hanno vantato l’efficienza dei soccorsi e inneggiato alla rinascita dell’intero Paese, è suonata del tutto sgradevole in un contesto ancora scioccato per la morte improvvisa e violenta di 290 persone. Alcuni, animati dalle migliori intenzioni, hanno persino organizzato, sui social network, una raccolta pubblica dei nomi delle vittime, con l’idea di intercedere per le loro anime. Aggiungendo persino dettagli su presunte vite “lontano da Dio”, bisognose, più di altre, dell’eroico impegno di buoni intercessori diventati spietati giudici. Come se l’efficacia della preghiera fosse direttamente proporzionale alla sua visibilità mediatica, o come se il buon Dio dimenticasse qualcuno sotto le macerie solo perché il cattolico di turno ha omesso di inserirlo nella sua devota lista. Altri, con un furore talmente “cattolico” da risultare non solo anti-cristiano, ma anche disumano, hanno invece ritenuto che il terremoto sia stato il giusto richiamo divino per una nazione colpevole di aver legittimato le unioni civili.

 

 

     Al di là di questi casi stravaganti, anche le parole più equilibrate e consolatorie suonano fuori luogo, dimostrando che, di fronte al dolore umano, siamo tutti dei potenziali Pangloss. Si pensi alla stessa idea tradizionale secondo cui Dio non vuole le sofferenze umane, ma le permette o per evitare un male peggiore, o per trarne un bene maggiore di quello che ci sarebbe stato se le avesse impedite. Quando si tratta di persone chiaramente innocenti, come i bambini, questo teorema suona però disumano, come Dostoevskij ha mostrato con insuperabile efficacia nei suoi romanzi. E dalla sofferenza, spesso, proviene ulteriore male invece che bene, come quando essa provoca depressione fisica e morale, isolamento, rifiuto di Dio e indurimento del cuore.

 

    Il Pangloss “cattolico”, ridotto con le spalle al muro, tende in questi casi a rifugiarsi nell’escatologia. Egli potrebbe replicare, con san Paolo, che “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm, 8, 18).  Si tratta di uno dei versetti più rassicuranti della Sacra Scrittura, che però, paradossalmente, non può essere “somministrato” a chi sta soffrendo. Lo lascia intendere la stessa Scrittura in un versetto di Geremia, citato non a caso anche nei vangeli a proposito della strage degli innocenti: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Ger 31, 15). Prendere sul serio il dolore degli altri, soprattutto quello del lutto, significa riconoscere che nella perdita di ciò che amiamo c’è sempre qualcosa di irreversibile. In una densa pagina del suo Diario di un dolore, C. S. Lewis, da cristiano, ha scritto che nemmeno la prospettiva della resurrezione è in grado di cancellare questa esperienza:

 

 

«Parlatemi della verità della fede, e vi ascolterò con gioia. Parlatemi dei doveri della religione, e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite. […]. Se una madre piange non ciò che ha perduto lei, ma ciò che il suo bambino morto ha perduto, le è di conforto credere che egli non ha perduto il fine per cui è stato creato. […]. Un conforto per lo spirito eterno che è in lei e che è proteso verso Dio. Ma non per il suo spirito materno. La felicità specificamente materna per lei è un capitolo chiuso. Mai, in nessun luogo o tempo, avrà più il suo bambino sulle ginocchia, gli farà il bagno, gli racconterà una storia, farà progetti per il suo futuro, vedrà i suoi nipoti» (C.S. Lewis, Diario di un dolore, Adelphi, Milano 1990, pp. 32-33).

 

    Di fronte al dolore di una madre orfana del proprio bambino non c’è parola, non c’è silenzio, non c’è carezza, non c’è rimedio. Né la spiegazione “tecnica” di ciò che è accaduto ad Amatrice o il piano di ricostruzione e di ritorno alla normalità potrà più cancellare l’inquietante domanda: perché proprio quei bambini? Ha ragione Emmanuel Lévinas, quando dice che, di fronte alla brutta morte degli altri, avvertiamo sempre un oscuro senso di colpa per il fatto di non essere stati colpiti anche noi. Ma forse è proprio qui che, nell’abisso del male, intravediamo un fragile appello del bene. La compassione ci dice che dietro l’indifferenza e la competizione che spesso caratterizzano i nostri rapporti, e che ci inducono a considerarle la norma delle relazioni umane, si nasconde una profonda solidarietà di destino, persino un amore reciproco. Almeno questo allora possiamo dire: non è vero che “homo homini lupus”, come pensava Hobbes. “Homo homini angelus”, piuttosto, come ha dimostrato la luminosa testimonianza di tanti vigili del fuoco e volontari che, sino all’ultimo, hanno scavato sotto le macerie. Riemergendone, in qualche felice caso, con un bambino, ancora vivo, fra le braccia. 

 

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