di Giuseppe Verde
Il prossimo 4 dicembre gli Italiani decideranno il destino della riforma costituzionale approvata dal Parlamento nel corso di questa legislatura. È necessario che i cittadini siano bene informati, così che il voto (in un senso o nell’altro) sia frutto di un esame dei contenuti della riforma. Altre questioni è bene che stiano fuori dalla cabina elettorale: ci saranno momenti nei quali scegliere chi dovrà guidare il Paese; ci saranno altri contesti nei quali valutare l’operato dei leader dei partiti. Questo è il momento in cui si deve capire e valutare il testo della riforma costituzionale per quello che è.
Il tema delle riforme è presente nell’agenda politica italiana da più di trent’anni: commissioni e comitati hanno proposto differenti progetti di modifica della seconda parte della Costituzione, senza però mai raggiungere il traguardo desiderato. Ciò certo non significa che dobbiamo accettare una riforma della Costituzione solo perché da troppi anni discutiamo di cambiarla. Però è fuori dubbio che i contenuti della riforma oggi in discussione sono stati oggetto di ampi approfondimenti e di lunghi dibattiti.
Rispetto ai precedenti tentativi di modifica, la riforma attuale presenta dei caratteri precisi. Intanto è bene precisare ciò di cui non si occupa: la riforma non attiene alla prima parte del testo costituzionale, nella quale troviamo i principi fondamentali e la disciplina delle libertà costituzionali; la riforma non modifica in nulla i poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri, né quelli del Presidente della Repubblica. Non cambiano le attribuzioni della Corte costituzionale. Nulla è innovato rispetto alle garanzie costituzionali del potere giudiziario. Da questo punto di vista si tratta di una riforma diversa da quella esitata dalla Commissione D’Alema (1997) o approvata dal centro-destra e poi respinta dagli elettori in occasione del referendum del 2006.
Oggi i temi in discussione attengono alla struttura del Parlamento (superamento del bicameralismo), all’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, alla risistemazione delle competenze legislative tra Stato e Regioni; la riforma promette, come conseguenza di molte delle sue disposizioni, un contenimento dei costi legati alla politica. Degno di nota il tentativo di rivitalizzare gli istituti di democrazia diretta come il referendum e l’iniziativa legislativa popolare.
È bene rammentare che la struttura bicamerale del Parlamento è uno dei punti più controversi discussi in Assemblea costituente. Ne è prova il fatto che il testo originario della Costituzione prevedeva delle differenziazioni (oltre il numero dei componenti) tra i due rami dal Parlamento. Il Senato avrebbe dovuto avere una durata di sei anni, si sarebbe dovuto eleggere in modo differente dalla Camera dei deputati, doveva essere il Senato delle Regioni. Ma così non è stato. Le forze politiche hanno parificato in tutto il Senato alla Camera. Nella prassi sappiamo che una legge sarà tale solo se entrambi i rami del Parlamento avranno deliberato il medesimo testo; ciò significa che se la Camera modifica il testo già approvato dal Senato, sarà necessario un nuovo passaggio in Senato.
La riforma incide sulla struttura del Parlamento e sulle modalità attraverso le quali saranno approvate le leggi. In estrema sintesi, il cuore delle attività parlamentari faranno riferimento solo alla Camera dei deputati: sarà la Camera che voterà la fiducia al governo, sarà la Camera il luogo dove saranno approvate quasi tutte le leggi, sarà solo Camera dei deputati la sede della rappresentanza nazionale. Sono convinto che questa semplificazione della decisione politica parlamentare contribuirà al rilancio del Parlamento repubblicano che, proprio in occasione dell’approvazione della legge di revisione della Costituzione, ha visto forze politiche approvare le riforme per poi cambiare idea durante l’iter parlamentare solo per ragioni di mera opportunità politica.
Il Senato non scomparirà, ma il suo ruolo cambierà. Sarà composto da soli 100 Senatori: 5 saranno scelti dal Presidente della Repubblica (non più a vita, come oggi, ma solo per sette anni); i rimanenti 95 saranno eletti dai consigli regionali fra i consiglieri regionali e fra i sindaci dei capoluoghi. In particolare 74 saranno consiglieri regionali e 21 sindaci. La riforma prevede che la scelta dei Senatori debba avvenire “in conformità alle scelte espresse dagli elettori” al momento dello svolgimento delle elezioni regionali. La disciplina elettorale che seguirà dovrà consentire agli elettori di individuare, al momento dell’elezione dei consiglieri regionali, chi fra di essi rappresenterà la regione in Senato. La ripartizione dei Senatori fra le regioni avverrà in proporzione alla popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento, ma nessuna regione avrà meno di due Senatori.
La funzione di questo nuovo Senato sarà quella di rappresentare il sistema della autonomie territoriali (Regioni e Comuni) al “Centro”. Rimane la sua partecipazione al procedimento legislativo per tutta una serie di leggi che continueremo a chiamare bicamerali, le quali attengono ad aspetti generali della vita delle istituzioni nazionali e territoriali. Un ruolo particolare il nuovo Senato sarà chiamato a svolgerlo in occasione dell’approvazione delle leggi di bilancio o di quelle leggi che, in quanto espressive dell’interesse nazionale, recano una decisione politica che si impone a tutte le regioni.
Ma, soprattutto, al nuovo Senato spetterà curare il raccordo fra lo Stato, l’Unione europea e le istituzioni territoriali; il compito di valutare le politiche pubbliche e di esprimere pareri sulle nomine del Governo, e, ancora, di valutare l’attuazione delle leggi.
C’è poi il problema del rapporto tra Stato e Regioni. È noto che oggi il contenzioso fra queste due istituzioni è in continua crescita. Le competenze legislative regionali, riviste nel 2001. hanno prodotto il proliferare di leggi regionali diverse per settori e materie che necessitano di una disciplina unitaria. La riforma prova a mettere ordine in questo settore promuovendo un accentramento di competenze a favore dello Stato. Anche questa prospettiva deve essere apprezzata, perché affida allo Stato il compito di uniformare discipline che altrimenti possono produrre differenziazioni incompatibili con il principio di uguaglianza. La competenza del Senato in tema di raccordo fra centro e periferia – se bene attuata – potrà contribuire al superamento delle storiche differenze tra nord e sud del Paese.
Un cenno meritano alcune innovazioni. I cittadini potranno esercitare l’iniziativa legislativa promuovendo un testo di legge sostenuto da 150.000 firme. Vero è che attualmente ne bastano solo 50.000 ma è pur vero che per settant’anni non c’è mai stato un seguito parlamentare. La riforma innalza il numero di firme, ma impone che il Parlamento si faccia carico della proposta popolare. Molti referendum abrogativi sono naufragati sullo scoglio del quorum: per essere valida la consultazione referendaria, devono recarsi alle une la maggioranza degli aventi diritto al voto. La riforma – anche in questo caso – prevede che se l’iniziativa referendaria è sostenuta da 800.000 firme (oggi ne bastano 500.000) il quorum di validità del referendum è calcolato non sugli aventi diritto al voto, ma sulla base del numero dei cittadini che si sono recati alle urne nell’ultima competizione politica. La riforma promuove poi anche i referendum propositivi e di indirizzo. Nel complesso mi pare che si cerchi di potenziare gli strumenti di democrazia diretta, auspicando un maggiore coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni politiche.
Dalla soppressione del CNEL, delle Province, dal venir meno dei trasferimenti ai gruppi politici regionali, e, in generale, dal complesso della riforma i promotori sostengono che si realizzerà una riduzione dei costi legati al mondo della politica nazionale e regionale. Mi pare che si tratti di un inizio che deve essere incoraggiato.
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