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Non è un paese per incapienti

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di Giuseppe Savagnone

 

Capovolgendo il titolo di un amaro film dei fratelli Coen, si può ben dire che l’Italia è “un paese per vecchi”. La diminuzione delle nascite e il prolungamento della vita delle persone già nate stanno avendo come effetto la diminuzione dei giovani e l’aumento degli anziani in misura maggiore che in altre nazioni.

L’Italia non è invece un paese per poveri. Lo è così poco che ora non vengono neppure più nominati. Li si è ribattezzatti “incapienti”. Non è una novità: ogni volta che c’è da fregare qualcuno, da noi, si ricorre a un neologismo o a un termine desueto. È stato così con gli “esodati”, con quegli sventurati, cioè, che, sotto il governo Monti, si trovarono ad aver lasciato un lavoro stipendiato sicuri di percepire, a termine di legge, la pensione, e si sono trovati, per il mutare della legge, senza stipendio e senza pensione.

Chi è un incapiente? Ne leggo la definizione in un dizionario on line: «Persona che dichiarando un reddito imponibile inferiore alla soglie minime previste, non subisce alcuna tassazione sul reddito e che, di conseguenza, non trae beneficio da sue eventuali riduzioni». Da noi il reddito minimo per la tassazione è 8 mila euro (lordi) l’anno. Meno di settecento (lordi) al mese. Già questo dice che in sostanza gli incapienti – nel nostro paese sono più di quattro milioni – coincidono, in sostanza, con i poveri.

Ma perché ne parliamo? Basta dare una scorsa ai titoli dei giornali di questi giorni. Il governo Renzi (in pratica, Renzi: il governo sembra ridursi a lui) ha finalmente prodotto, in mezzo a un grande fumo (ma gli italiani hanno dimostrato di essere sensibili solo ai politici fumogeni), anche un piccolo arrosto: una detrazione di 80 euro al mese, già a partire da maggio, per i redditi dagli 8 mila ai 26 mila euro lordi l’anno. Certo, sempre meglio di Berlusconi che, dopo aver guidato, dal 2001 al 2011, i due governi di più lunga durata nella storia della Repubblica, ci ha lasciati nella situazione in cui ci troviamo e da cui ancora oggi stentiamo a uscire. Anche se troppo poco, in verità, per parlare di una vera svolta, come l’attuale presidente del Consiglio pretende.

 

Quello che interessa, qui, è però la notizia a cui si riferiscono i titoli dei giornali e che si può riassumere in una frase: «Restano esclusi gli incapienti». Già. Niente soldi per i poveri. La formula utilizzata, che è quella della detrazione dalle tasse, non consente per loro alcun vantaggio, visto che tasse non ne pagano.

Renzi assicura che per loro saranno studiate «nelle prossime settimane o mesi», misure apposite. Ma tutti gli analisti concordano nell’osservare che, per fare questa riforma (guarda caso, alla vigilia delle elezioni europee), il premier ha dovuto raschiare anche il fondo del barile, realizzando un vero e proprio bricolage di tagli e di maggiori prelievi, alcuni tra l’altro soggetti a contestazioni  da parte di chi ne è stato colpito, e comunque, nella stragrande maggioranza, fatti solo a titolo di una tantum, quindi non rinnovabili automaticamente in futuro. È dunque probabile che la vaghezza della promessa relativa agli incapienti nasconda la consapevolezza che per loro non ci sono speranze in tempi ragionevoli.

Gesù ci aveva avvertito: «I poveri li avrete sempre con voi». Possiamo mimetizzarli, chiamandoli “incapienti”, ma non riusciamo a nasconderli mai del tutto. Anche i ricchi li avremo sempre con noi. Forse perché siamo noi.  E di ricchi ce ne sono! Ce lo dice, involontariamente, una delle poche riforme definitive fatte dal governo in questa occasione, e cioè l’avere fissato un tetto di 240 mila euro di stipendio annuo per tutti i manager pagati con soldi pubblici. Una misura che ha suscitato proteste già prima e ancor più dopo la sua approvazione, evidenziando che fino ad ora c’erano tanti che prendevano di più. A queste persone 240 mila euro sembrano troppo poco. Penso agli 8 mila euro degli incapienti.  240 mila euro sono trenta volte il guadagno annuo di uno di loro. In altri termini, un incapiente dovrebbe lavorare trent’anni per avere quello che un manager percepisce in uno (lamentandosi perché gli pare poco).

Mi viene in mente quello che Aristotele diceva della giustizia distributiva, propria della sfera pubblica, che è diversa da quella “commutativa”. Quest’ultima vale negli scambi tra i privati e consiste nell’uguale valore di ciò che ognuno dei due contraenti dà all’altro. A livello politico, invece, la giustizia dev’essere realizzata non garantendo a tutti cose uguali, ma distribuendo a ciascuno ciò che gli spetta secondo la sua particolare condizione.

Ora, nessuno pretende che il presidente delle Poste o di Trenitalia sia pagato quanto un fattorino, perché è chiaro che per svolgere le sue mansioni deve avere delle capacità e competenze, ma anche assumersi delle responsabilità, enormemente superiori. Il dubbio è se, tra due persone che lavorano, impegnando entrambe le loro energie al servizio della comunità (questo dobbiamo darlo per scontato in entrambi i casi), possa esserci una differenza di trenta volte (o di più, com’era prima di questa riforma).

«Questo è il mercato!», dirà qualcuno. Magari si potrebbe obiettare che da noi il mercato funziona in modo molto strano, concedendo buonuscite astronomiche a manager che hanno  portato le rispettive aziende pubbliche al disastro o più semplicemente a un pessimo funzionamento, invece di obbligarli a risarcire i contribuenti. Ma la domanda di fondo è un’altra, e cioè se veramente la politica debba servire a consacrare le leggi del mercato o non possa contribuire a modificarle. Perché, nel primo caso, è meglio dire agli incapienti che per loro non ci sarà mai giustizia.

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