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Tommaso, testimone del Risorto

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Introduzione alla lectio divina su Gv 20, 19-31

27 aprile 2014 – II domenica del tempo di Pasqua

 

19 La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette nel mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. 20 Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. 22 Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo spirito santo; 23 a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. 24 Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. 26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. 27 Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. 28 Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. 29 Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”. 30 Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. 31 Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

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Incredulità di san Tommaso del Caravaggio, 1600-1601, olio su tela di 107 × 146 cm, Bildergalerie Potsdam.

 

Il personaggio di Tommaso, apostolo spesso superficialmente deplorato per il suo atteggiamento empirico, ma profondamente umano per la sua pragmatica incredulità, ha sempre contrassegnato, anche liturgicamente, la seconda domenica del tempo di Pasqua. Una domenica speciale, dunque, che presenta anche altri significati assolutamente peculiari.

Ciò che balza agli occhi è l’assenza di soluzione di continuità teologica con la domenica di Pasqua. Questa seconda domenica, tradizionalmente chiamata “in albis”, è, infatti, anche la cd. ottava di Pasqua e proprio il brano di Giovanni esordisce sottolineando l’unità del contesto pasquale (“La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato”).

Nonostante le prime testimonianze di Pietro e Giovanni (il quale vide e credette;v. Gv 20,8) e soprattutto la testimonianza (giuridicamente piuttosto debole in quei tempi) di una donna, Maria di Magdala, alla quale il Risorto si era appena prima presentato per rivelare la sua nuova condizione, oltre che per confortare gli altri fratelli, la scena evangelica coglie i discepoli mentre si trovavano ancora in preda al timore, con le porte – fisicamente e psicologicamente – chiuse ad una realtà terribile che aveva sottratto loro il maestro in circostanze assolutamente drammatiche: un blocco che testimonia come i discepoli si trovassero in una fase di autentica elaborazione del lutto di fronte a ciò che costituiva il fallimento della propria vita fino a quel punto.

 

 

La croce aveva, infatti, svelato in profondità tutta la fragilità della loro fede. I discepoli che avevano inizialmente abbandonato tutto con coraggio per seguire Gesù, avevano allo stesso modo tutti indistintamente abbandonato il loro maestro nel momento della croce.

La resurrezione del Signore, come ogni realtà d’amore, non si conosce, ma si riconosce ed i discepoli non avevano, dunque, ancora maturato il senso della venuta del loro maestro. Per questo era necessario non solo che Gesù venisse a mostrare i segni della propria esistenza umana (le mani ed il costato), ma che Egli completasse la sua missione con un dono speciale, il dono dello Spirito, un dono i cui frutti – fra loro intrinsecamente correlati – sono essenzialmente la pace (“Pace a voi”), il perdono reciproco (“a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi”) e la gioia (“i discepoli gioirono al vedere il Signore”).

Il dono dello Spirito (da qui anche il nome di “Pentecoste giovannea” attribuito comunemente al nostro brano) è una nuova creazione, come si comprende dal verbo “alitare” che rievoca la creazione (Gn 2,7): attraverso il dono dello Spirito, Gesù suscita la fede pasquale e porta a compimento una creazione nuova.

Di fronte a tutto questo si erge Tommaso. Discepolo radicale, idealista e cocciuto fino al punto di non temere l’isolamento. Egli non c’era. E proprio non riesce a credere alla parola della sua comunità. Non fidandosi dei compagni, l’apostolo non esita a operare uno strappo con i suoi fratelli. Non riesce più a condividere la loro gioia, sceglie la solitudine del dubbio, la chiusura dell’incredulità. Non gli basta ascoltare una testimonianza: vuole vedere, vuole toccare. Altrimenti – è categorico – non crederà.

Il dubbio è coerente col suo carattere, pragmatico, razionale, concreto: Andiamo anche noi a morire con lui! aveva esclamato sconfortato di fronte alla risoluta decisione di Gesù di recarsi da Lazzaro, mentre i discepoli timorosi dei giudei obiettavano che si trattava di un viaggio pericoloso (Gv 11, 8.16). E quando Gesù, dopo l’ultima cena, aveva fatto quel lungo discorso sul “posto” che andava a preparare per i discepoli, Tommaso, rivelando ancora la sua fatica a comprendere il Signore, aveva quasi ironizzato: Signore, non sappiamo dove vai: come possiamo conoscere la via? (Gv 14, 2-5).

L’incredulità di Tommaso, in realtà, non è la negazione razionale di una posizione, quella della fede, che caratterizza l’ateo; non è nemmeno l’oligopistia (“poca fede”) di Pietro che affonda sulle acque (Mt 14, 24-31), ma è l’incapacità tutta umana di cogliere un cambiamento: il maestro che conosceva è ora il Cristo. Il modo con cui fino a quel momento ci si rapportava a Gesù è ormai cambiato. 

Dalla visione di Gesù si passa alla fiducia nei fratelli che lo testimoniano. Le fede pasquale diventa atto comunitario, non solo atto personale e critico. Tommaso, che era stato al fianco di Gesù fino all’ultimo, non aveva ancora compreso e si ostinava a cercare il maestro in carne ed ossa, percorrendo le vie del passato, le vie della visione. Era, dunque, ancora suo “discepolo”, come molti altri che lo avevano visto passare nelle strade della Palestina, ma non ancora “testimone”, tramite i fratelli, della sua Resurrezione.

Prima si trovava di fronte ad un uomo straordinario, al quale aveva dedicato la sua vita, ora gli veniva presentato un Dio che ci salva dalla morte attraverso testimonianze reciproche di pace, di perdono, di gioia.

A seguir Giovanni, non sappiamo – come suggerirebbe la raffigurazione del Caravaggio – se effettivamente Tommaso abbia sentito il bisogno di mettere il dito nel costato. Gesù, ad ogni modo, disvela e accoglie nel profondo i pensieri del suo amico e non ignora il suo bisogno, invitandolo a toccare mani e costato per accertarsi della resurrezione (una resurrezione che porta i segni dei chiodi e che, dunque, non nega l’umanità, ma la trasfigura e la trascende).

Un gesto sufficiente a sconvolgere il discepolo ed a consentigli di pronunciare l’altissima professione di fede: Mio Signore e mio Dio!

Professione che forse non tutti i credenti più convinti sarebbero in grado di fare.

 

Lorenzo Jannelli

 

 

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