di Giuseppe Savagnone
Ora che sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza dello scorso 9 aprile con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto della fecondazione eterologa, siamo in grado di conoscere la filosofia a cui si sono ispirati i magistrati della Consulta.
Ed ecco il primo punto di questa filosofia: «La determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali». In altre parole, avere un figlio è un diritto. Perciò ogni mezzo usato, purché non leda la Carta Costituzionale, rientra nella «fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi».
In realtà, quello a cui i mezzi di comunicazione hanno dato più risalto è il secondo punto: il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa, che è permessa in altri paesi, dà luogo a «un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica», perché i ricchi possono permettersi di andare all’estero per attuarla, mentre i poveri no.
Siamo davanti a due affermazioni che sembrerebbero porsi sul piano della ragione e che quindi è lecito considerare sotto questo profilo. Cominciamo dalla prima. La «fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi» include «la determinazione di avere o meno un figlio». A qualunque costo? Anche in un’ottica squisitamente liberale, non vale il principio che la libertà di ciascuno ha come limite quella dell’altro? Forse in una sentenza che si pronuncia sul tema della generazione ci si sarebbe potuti aspettare che si facesse menzione, ad esempio, oltre che dei diritti dei genitori, di quelli dei figli. Invece, su questi nemmeno una parola. La filosofia della nostra Consulta non li considera, evidentemente, degni di nota. La questione è liquidata, di passaggio, con un’incidentale in cui si dice che la norma che vietava la fecondazione eterologa non è «giustificata dalle esigenze di tutela del nato». Una laconicità che non ci sorprende, in una società dove i diritti delle generazioni future sono sistematicamente calpestati da adulti troppo indaffarati a tutelare i loro.
Eppure nella Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991, all’art. 3, si dichiara solennemente: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». Magari i componenti della Corte non hanno letto la Convenzione o se la sono dimenticata. Altrimenti di sicuro avrebbero sentito il bisogno di spiegare meglio come la loro decisione – che indubbiamente rientra fra gli atti di cui si parla in quel testo – , contenga una «considerazione preminente» dell’«interesse superiore» del bambino che nascerà e che si ritroverà orfano di padre non per le tristi circostanze della vita – come capita a tanti figli adottivi – , ma per legge.
Ma ancora più sorprendente è il secondo punto della costruzione teorica della Consulta. Esso riflette un luogo comune già spesso utilizzato in passato per il divorzio e l’aborto e che quindi probabilmente è sembrato ovvio ai nostri magistrati: se una pratica è permessa o comunque tollerata in altre nazioni, è ingiusto che non lo sia pure in Italia, perché allora si sancisce la disparità tra chi può permettersi questi “viaggi della speranza” e chi non ha i soldi per farli.
Ma il principio è veramente valido in sé? O si può prestare a un utilizzo, assolutamente corretto sul piano logico, ma inaccettabile su quello etico?
Provocatoriamente, si potrebbe ricordare che l’ultimo rapporto di Ecpat Italia (organizzazione che si batte contro lo sfruttamento sessuale dei bambini) segnala che nel mondo ogni anno ci sono un milione di turisti sessuali che rivolgono le loro attenzioni a minori tra i 12 e 14 anni, e a volte anche più piccoli, andandoli a cercare nei paesi del Terzo Mondo, dove queste pratiche sono se non lecite, comunque tollerate (spesso sono le stesse famiglie a mettere in vendita i figli) e che gli italiani sono ai primi posti. È chiaro che a farlo sono i più ricchi, mentre i pedofili poveri sono tagliati fuori da questa pratica. Dovremmo invocare l’abolizione delle norme italiane, per superare questo «ingiustificato, diverso trattamento»? E i paesi dove si pratica l’infibulazione femminile, da noi, invece, severamente vietata?
Prevedo già il coro indignato di proteste, volto a evidenziare che non si può mettere sullo stesso piano il desiderio di un figlio e quello di soddisfare una perversione sessuale o una usanza barbarica. Eppure il diffuso relativismo culturale dovrebbe mettere in guardia da questa nette distinzioni. Per esempio, proprio la unilaterale insistenza sui diritti degli adulti e il sistematico silenzio su quelli dei bambini può produrre sorprese anche sotto questo profilo. Il 3 aprile 2013 una corte d’appello olandese ha annullato la sentenza di primo grado che vietava l’attività di un’associazione che difende e propaganda la pedofilia. Chi, in Italia, volesse fare la stessa cosa, potrebbe appellarsi al principio che non è giusto riservare ai ricchi il diritto di recarsi in una terra dove vige questa pratica di civiltà?
Io penso sia difficile negare che, se si deve ragionare, il principio invocato dalla Corte Costituzionale e ampiamente enfatizzato dalla nostra stampa sia una bufala inaccettabile. Esso vale solo se si dà per scontato che ciò che si va a cercare fuori sia in sé giusto. Ma qui torniamo al primo punto della sentenza: è giusto che vengano deliberatamente generati, col consenso delle leggi, bambini “adottivi” che – come accade quasi sempre nelle adozioni – si chiederanno per tutta la vita chi è il loro padre biologico?
La Consulta è sicura di sì. Ma la ragione non sembra dalla sua parte.
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