CONOSCERE, FARSI CONOSCERE, RAFFORZARE, DISCENDERE
Un ‘parrino’ dal Brasile ai vicoli di Borgo Vecchio
di Antonio Guglielmi mccj
(seconda parte)
- Discendere
Alcuni al Borgo hanno commentato che “il parrino” è sceso ed è entrato tra i vicoli della gente comune. Riporto una frase di Dosolina, donna che si era avvicinata da poco alla comunità di santa Lucia, con un passato turbolento: “Padre posso dire che ho trovato nella mia vita un uomo e un padre che mi da serenità e mi rispetta come donna”. Inserirsi in una determinata realtà è scendere, mettere a proprio agio chi ti sta di fronte, anche con il suo passato burrascoso.
Giovanni afferma che (3, 13) “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo”. Di questo versetto mi ha sempre colpito lo scendere e salire del Figlio dell’uomo. Essi non sono semplici movimenti fisici, ma esprimono una pregnanza teologica, non percepibile alla sensibilità di chi deve mantenersi sempre in salita, oppure in superficie come l’olio.
Vivere in salita significa disprezzare ciò che nel gergo comune si esprime col “fare la gavetta”. Si tratta di mettercela tutta, per dare il massimo di sé e ottenere gli esiti migliori dalle proprie capacità e dai propri talenti, in modo da emergere sulla massa e farsi notare. È l’impegno di chi cerca il successo, la carriera, la realizzazione personale nel mostrarsi al di sopra della media, al di fuori della mediocrità.
Chi si impunta a voler innalzarsi per essere visto e ammirato, smarrisce piano piano l’altezza della propria dignità umana. Fino a sotterrarsi nell’angoscia. Quanto più uno sale più drammatico, dannoso e mortale sarà il tonfo, la caduta.
Chi invece opta fiducioso per la via dell’abbassamento, praticando alla radice la scelta dell’ultimo posto in ogni occasione e in ogni relazione, sceglie la direzione di chi vuole incarnarsi nella vita concreta di un gruppo umano. Scendere è la via che permette di vivere, è vivere in pienezza e nella gioia, è conversione...
E’ bello considerare Gesù che chiede a Zaccheo di scendere perché deve fermarsi a casa sua. Scendere indica la missione di Gesù.
Scendere è mettersi alla stregua dell’altro, è incrociare lo sguardo dell’altro. Vederlo non dall’alto verso il basso, ma attraverso sguardi che si incontrano. La logica di Dio e del Figlio suo è proprio in quell’uscire da se stesso per “scendere” nella profondità debole dell’essere uomo, invertire i passi, rovesciare la prospettiva, capovolgere le priorità. Parte dalla fine, per raggiungere, quasi inaspettatamente, l’obiettivo iniziale. Senza che mai la salita scardini il processo vitale della continua discesa negli abissi dell’umanità.
Gesù, infatti, il Figlio di Dio discende dal cielo della divinità, eliminando per sempre la separazione tra Dio e l’uomo, e si fa partecipe della fragilità esistenziale di ognuno di noi.
Per salire bisogna scendere, affondare come lo è stato per Pietro. Solo chi accetta di scendere negli inferi, nei bassifondi dell’umanità può risalire la china e aiutare gli altri a cogliere la bellezza delle alte vette. Si tratta di condividere l’esperienza significativa di un incontro, che è Gesù Cristo, Evangelii Gaudium del Padre.
Osservando il degrado dell’ambiente del Borgo, rifiuti, illegalità, sopraffazione, aggressione verbale, vendetta, la discesa è l’unico cammino per insieme risalire verso nuovi orizzonti, per insinuare che esiste una vita bella, fuori “dal Borgo”.
Conoscere, farsi conoscere, rafforzare e scendere sono tappe di un processo graduale e permanente di inserimento, di inculturazione, di immersione nella realtà a cui si è inviati. Per me costituisce il mio stile di essere missionario, soprattutto in tempi di evaporazione. Incarnarsi significa situarsi in maniera localizzata di “carne ed osso”, nel senso di dire questa volta essa è carne della mia carne ed osso delle mia ossa. E’ dare corpo, prendere corpo, far diventare carne. E questo richiede stabilità, determinazione, passione, fedeltà creativa ad un luogo e tempo.
In questi tempi di cambiamenti d’epoca, dove tutto diventa volubile, si evapora, si vive di una profondità a fior di pelle, incarnarsi è un scelta osata, è testimonianza profetica, necessaria per chi sceglie di vivere in ambienti di esclusione, e sceglie di essere segno alternativo, non conformista a tutto ciò che diventa effimero.
Essere corpo in processo di incarnazione è dare una risposta corporale alla Parola di Dio “ecco io vengo per fare la tua volontà”, prima di qualsiasi altra parola.
Se pensiamo al male che rende alla missione un fare improvvisato, una rotazione selvaggia, fatta senza prospettive, dettata dalle emergenze, alle volte ho l’impressione che si viva una missione meteorologica, dettata dalle urgenze climatiche: tsunami, terremoti, siccità, alluvioni, guerre, rifugiati ci vedono in prima linea, ma passata l’urgenza, si ritorna al banale, al di sempre. Proprio perché è connessa con gli scenari meteorologici mutevoli piuttosto che con la terraferma, anche a noi l’impegno per qualcosa di stabile, di lunga scadenza che innesca processi di formazione ed impegno a servizio della vita può logorare. Qualcuno potrebbe osservare che “stabilità” non è sempre segno di incarnazione. Di fatto gente che è rimasta per lunghi anni nello stesso luogo ha vissuto in ambienti asettici, senza mai lasciarsi macerare dalla vita della gente. Rimanda più a statue da museo o che troviamo in chiesa, che assorbono polvere e batteri favorevoli al deterioramento a scadenza prolungata.
- Qualche considerazione finale
a) L’ufficio parrocchiale nelle sue funzioni è poliedrico: l’incontro con le persone diventa sempre una sorpresa. Quando uno entra non si sa mai cosa porta con se. Esso è lo schermo “della vita in diretta”. La richiesta di un documento religioso o l’iscrizione dell’intenzione di messa diventa l’opportunità per far emergere la sofferenza o il dolore del parente del defunto, oppure ti si apre un capitolo di storie umane e drammi personali raccapriccianti o ritratti di famiglie coraggiose e di veri atti di generosità. Nella pastorale non è possibile quantificare in termini di crescita, di nuovi acquisti, perché il contatto quotidiano e l’incontro personale, spazio atipico e unico, rendono intenso quel momento che innesca processi di cambiamento non computabili nei grafici delle diagnosi. Conservo nell’intimo, gelosamente, delle vere pepite umane fatte di gratuità, onestà, coerenza, sacrificio. Privilegi che attestano che la realtà, così come essa è, può diventare un luogo ed un modo di felicità.
b) La mafia c’è ma non si vede, si sente, la si percepisce ma ti sfugge. Curiosa l’espressione “odore di mafia”. Profumo o odore sono evanescenti, percepiti, ma non raggiungibili, afferrabili, eppure contengono una forza, una violenza, una volta che si scatenano, si manifestano. Ma la mafia che vedo ed affronto ogni giorno, che mi si presenta nella sua realtà dura e cruda è quella delle conseguenze nefaste di una mafia organizzata ed istituzionalizzata. E’ come un grande fiume dai suoi molteplici rigagnoli. Porta il nome di fame, disoccupazione, mancanza di lavoro, malattia, disperazione, violenza domestica, cultura di odio e vendetta, sopraffazione, disgregazione familiare, arresti domiciliari.
c) Uno dei meriti da riconoscere a Papa Francesco è la guerra contro il clericalismo. Mi infastidisce l’atteggiamento clericale missionario di chi, ritornando in Italia, con uno sprizzo di orgoglio guarda alle miserie della chiesa e della società italiana ed ha una parola da dire. In genere, i clerici hanno sempre da parlare e da correggere “ex cathedra”. Resistono ad una libertà interiore che li esonera dal dover giudicare tutto e tutti. Loro non ascoltano, hanno la risposta o la soluzione facile. Li riempie d’orgoglio la scelta eroica missionaria.
L’inserimento nella chiesa palermitana mi ha permesso di ascoltare, creare empatia verso gli agenti di pastorale, in particolare i presbiteri, soggetti facilmente punzecchiabili. Da parte loro, spesso, si riscontra solitudine, frustrazione, senso di abbandono, delusione per le continue sfide che provengono dalla odierna società con i suoi disagi. Alcuni ambienti sono veri deserti di relazioni umane, sfide continue per favorire l’incontro delle persone, motivarle per un impegno a servizio degli altri.
d) Da ultimo non posso tralasciare santa Lucia, di cui la parrocchia porta il nome, siracusana, una delle sante siciliane, come Agata, Rosalia, Oliva. La tradizione la raffigura con in mano un piattino (o una coppa) dove sono riposti i suoi stessi occhi. Da non dimenticare il suo martirio voluto dal governatore Pascazio, per il rifiuto di convogliare a nozze. Rimette a quello che oggi si chiama il femminicidio. Per la parrocchia è stato motivo di riflessione sulla tratta degli esseri umani, sulla violenza domestica nei confronti delle donne. Diventa il desiderio, facendo leva sulla testimonianza e la devozione alla santa, di avviare ambiti di assistenza e protezione alle donne, in particolare quelle del Borgo, per creare o recuperare una relazione con se stesse di autostima e di promozione, riequilibrando un rapporto uomo donna, viziato per cultura che trasforma l’altra in possesso, oggetto, merce di scambio.
Quale sfida dopo tutto questo? Imparare a stare dove si è, così come si è, imparando ad accogliere il proprio e l’altrui limite, spazio di riserva, vuoto, dove l’epifania di Dio prende un corpo, senza privilegi.
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