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Che cosa cercate? Le domande della sequela

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Introduzione alla lectio divina su Gv 1, 35-42

        18 gennaio 2015 – II domenica del tempo ordinario (Anno B)

35 Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36 e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. 37 E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38 Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?”. 39 Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40 Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41 Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia” – che si traduce Cristo – 42 e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa” – che significa Pietro.

 

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Eugene Burnard, Les disciples Pierre et Jean courant au sépulcre le matin de la Résurrection,

1898, olio su tela, Museo d’Orsay, Parigi

 

 

Nel vangelo di Giovanni la narrazione della vocazione dei primi discepoli è profondamente diversa da quella degli altri evangelisti. In questi ultimi Gesù prende l’iniziativa, entrando quasi brutalmente nelle loro vite con una chiamata perentoria come “Seguimi” (Mc 2,14). Al contrario, l’evangelista Giovanni ci narra le diverse fasi, una sorta di “progressione dinamica” dell’incontro con Cristo che rivela non solo una profonda conoscenza (quasi psicologica) dei meccanismi dell’umano, ma anche la percezione della assoluta discrezione dell’agire divino.

Sol che si faccia attenzione ai verbi ed alle azioni del brano giovanneo, possiamo sinteticamente enucleare tali successive fasi -inscindibilmente e reciprocamente legate fra loro – che si traducono nella sequela cristiana: testimonianza, ascolto, curiosità, ricerca, relazione, intimità, nuova testimonianza.

Il brano esordisce con la figura di Giovanni Battista insieme a due suoi discepoli. Il Battista è reso dall’omonimo evangelista come un soggetto staticamente fermo, come la religiosità delle otri vecchie rispetto alla novità di Gesù, il quale invece è descritto in movimento, mentre cammina. Gesù è il Veniente, il futuro che si approssima. Questa era stata la scoperta del Battista (v. 1, 29) e questi, fedele al suo compito di testimone ed attento osservatore dei segni dei tempi, mette a disposizione dei suoi anonimi discepoli il frutto della sua esperienza religiosa (nel brano precedente aveva anche partecipato al battesimo di Gesù, aveva contemplato lo Spirito scendere come colomba dal cielo): il Nazareno è l’Agnello di Dio.

Senz’altro l’espressione “agnello” di Dio, resa in aramaico con la stessa parola utilizzata per rendere il concetto di “servo” (taljà), era nota all’uditorio giudaico e richiamava il profeta Isaia (Is. 41, 1: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui”), nonché la figura del Servo sofferente, ossia di Colui che è chiamato a soffrire colpe non sue per la salvezza degli altri (Is 53, 7: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.”) e per ristabilire la giustizia del piano di Dio (“Is 53, 11: “il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.”).

Giovanni Battista annuncia ora ai discepoli che è lì fra loro Colui il quale era atteso da un intero popolo e questo annuncio trova orecchie curiose. I discepoli ascoltano, infatti, l’annuncio del maestro e tale ascolto è evidentemente fecondo. Non si tratta di parole che cadono nel vuoto, esse si trasformano subito in azione. Il perché non è dato sapere: mera curiosità, voglia di novità, autentico spirito di approfondimento delle cose di Dio, forse tutte queste cose insieme albergano nel mistero del cuore di ogni uomo che si mette in movimento, che si mette a seguire Gesù (akolouthein, è il verbo tecnico del discepolato usato dall’evangelista).

Gesù, nel suo incedere, “si volta” e volge il suo sguardo verso chi si è posto alla sua sequela. A questo punto, scaturisce la domanda: Che cercate? È una domanda terribile, se presa sul serio, una domanda che rivela ai discepoli la loro identità di “cercatori”, aiuta i due a prendere coscienza che colui che segue Cristo deve essere capace di porsi domande, piuttosto che darsi risposte. Ogni credente viene così liberato dall’asfittico cliché – talvolta troppo comodo anche per i non credenti – di dover essere colui che ha una risposta pronta per tutto e può diventare finalmente colui che cerca in sé e nel mondo le tracce dell’agire di Dio.

Il discepolo in ascolto si muove per cercare qualcosa che gli manca nella fiduciosa convinzione che il “Tu” di Dio possa offrirglielo e nella umana consapevolezza che rimanere fermi nelle proprie originarie convinzioni è già un po’ morire.

Con straordinaria lucidità interiore o forse perche presi in contropiede, i discepoli ammettono la loro ricerca del “dove abita” Gesù. Lucidità perché non ci troviamo ovviamente di fronte alla richiesta dell’indirizzo di casa al proprio sconosciuto interlocutore (richiesta che suonerebbe anche oggi davvero inquietante per un qualsiasi cittadino delle nostre città metropolitane), quanto per la consapevolezza che la ricerca muove verso la profonda intimità del mistero di Dio che può cogliersi solo dentro una accogliente relazione. La dimora è il luogo dove l’uomo si ritira per dormire, ove questi rimane allo scendere della notte, ove svolge le sue funzioni vitali come mangiare, bere, dormire. Essere ammessi all’interno di una dimora – come anche le nostre esperienze quotidiane dimostrano – è in qualche modo essere ammessi a condividere la sfera più nascosta e segreta dell’Amico che ci invita.

I discepoli non sono indottrinati, non sono chiamati a formasi intellettualmente, ma sono chiamati a fare esperienza del Maestro. Come dice bene Manicardi, “La fede non si trasmette per via intellettuale, ma all’interno di relazioni umane.” ed una relazione è quella che offre Gesù ai discepoli in cammino. Venite e vedrete. Essi fanno esperienza del Maestro, si cibano e bevono con il (e del) Maestro, così come i discepoli di Emmaus faranno esperienza del loro accompagnatore misterioso nel vangelo di Luca.

Se vi è ascolto, curiosità, ricerca, azione, relazione, intimità con il Signore, allora potremo serenamente affermare con l’evangelista Giovanni di essere alla sequela del Figlio. Di questo hanno fatto esperienza i due anonimi discepoli. Di questo danno immediata testimonianza. Uno dei due prende un nome, Andrea, e si rende conto di aver di fronte il Messia (la sua terminologia è cambiata, non è più quella del maestro, il discepolo ha declinato la sua esperienza interiore con la sua cultura, non si parla di Agnello, si parla di Cristo) e ne mette a parte il fratello Simone. Lo coinvolge sino al punto da portarlo al cospetto di Gesù.

Il dinamismo della autentica testimonianza è contagioso e fa sì che si realizzi l’incontro tra Gesù e Simone. La testimonianza rende, dunque, possibile lo sguardo amoroso di Colui che ci conosce fin nelle nostre viscere (“Tu sei Simone, figlio di Giovanni”) e ci trasforma in modo nuovo, con l’investitura della Sua amicizia, che fornisce di senso la nostra vita (“sarai chiamato Cefa”).

Lorenzo Jannelli

(www.tuttavia.eu)

 

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