di Flora Pagano.
Sono passati alcuni mesi da quel 15 settembre 2014 quando una Palermo, illuminata di luce autunnale intensa e pacata insieme, esprimeva gioia e dolore, sorriso e pianto e il pensiero della vita e della morte, del tempo e dell’eternità, vagava nelle menti di tutti.
Era il ventunesimo anniversario del martirio di Padre Puglisi.
La Palermo del bene e chissà, forse anche quella del male, celebrava il ricordo di questa morte, partecipava nella Cattedrale all’iniziativa ”un fiore per Puglisi”, rendendo omaggio alla sua tomba, mentre nella piazza Anita Garibaldi, dove fu assassinato, davanti alla casa dove abitava, che è diventata un museo, si teneva una veglia di preghiera.
Sempre in piazza Anita Garibaldi avvenne lo svelamento di un medaglione commemorativo e il Presidente del Consiglio, dando prova di grande sensibilità, sentì il bisogno di inaugurare l’inizio dell’anno scolastico nella scuola di Palermo intestata a Padre Puglisi. Queste e altre iniziative intraprese per celebrare il sacrificio del Sacerdote rappresentano l’ansia di giustizia,di pace e di redenzione che anima il popolo palermitano e sono sintetizzate dal simbolo Padre Puglisi.
Il sangue del martire ha prodotto grandi frutti e ha sconfitto la morte come il chicco di grano della parabola: è il miracolo della vita che rinasce dalla morte.
Ma chi era Don Puglisi?
E’ stato definito superficialmente dai media “prete antimafia”,ma, in realtà, egli è stato molto di più, perché, se è vero che ha combattuto una battaglia civile contro la delinquenza organizzata, è anche vero che ha combattuto da sacerdote una battaglia esistenziale in nome di Dio e del Vangelo.
Non è facile sintetizzare la complessità,la profondità,la ricchezza del mondo morale di Don Puglisi, anche se la sua fisionomia appare limpida e coerente dalle parole di coloro che lo hanno conosciuto personalmente o che ne hanno apprezzato l’opera: non un sacerdote “turris eburnea”, staccato dal popolo, chiuso nella sua torre-altare. La sua parola d’ordine era l’amore. Il suo programma di vita sembra anticipare quello reso celebre dalla prima omelia di papa Francesco: camminare, edificare, confessare; ma alla formula del triplice infinito 3P aveva aggiunto un importante gerundio: cantando. E cantare significava esprimere l’amore per Dio, per l’umanità, per la vita, che era per lui un cammino, appunto, verso la luce.
Amava la natura e la faceva amare. C’è un particolare in apparenza banale, ma in realtà, a mio parere, molto significativo. Racconta Enza Maria Mortellaro che le scalate organizzate da 3P per i suoi giovani avevano sempre, come momento fondamentale, lo spettacolo più simbolico e grandioso della natura: il sorgere del sole. Il cammino verso l’alto voleva essere un’esortazione ad andare sempre più su (“Più su” era uno dei suoi motti), mentre l’alba rappresentava la speranza cristiana della vita terrena e ultraterrena.
Il suo slogan preferito era “Sì,ma verso dove?” Verso dove vogliamo che vada la nostra vita? Qual è il senso dell’esistenza? Da questo slogan ha preso nome il centro giovanile che ancor oggi continua l’opera di Padre Puglisi. “Venti, sessanta, cento anni, la vita. A che serve se sbagliamo direzione? Ciò che importa è incontrare Cristo, vivere come Lui, annunziare il suo Amore che salva, portare speranza e non dimenticare che tutti siamo costruttori di un mondo nuovo”.
Non dunque una figura protagonistica, ma una persona che voleva lavorare con gli altri. Usava a questo proposito la metafora del mosaico. Indicando la figura del Cristo Pantocratore dei mosaici di Monreale, osservava come tanto splendore fosse il frutto dell’unione di tante piccole tessere, ciascuna delle quali, da sola, non avrebbe avuto alcun significato.
Bisognava, dunque, camminare insieme, guidati da Dio e dal Vangelo. Quando ci presenteremo a Lui , Egli ci chiederà: Hai amato? E noi apriremo il cuore e mostreremo i nomi….
Era anche un uomo d’azione .
La Brancaccio del 1990 di cui 3P divenne parroco era dominio dei fratelli Graviano, boss legati alla mafia vincente dei corleonesi. Non c’era, né una parrocchia (la chiesa di S. Gaetano era crollata), né una scuola media, né alcun centro aggregativo. Lui fonda nel 1992 il Centro di accoglienza Padrenostro, come luogo di celebrazione della messa e come punto di riferimento per chiunque fosse in stato di bisogno, ma soprattutto come luogo di lotta alla mentalità mafiosa,vista come idolatria in quanto cultura del male, contro la cultura del servizio e dell’amore, propria del cristianesimo.
Questo centro esiste ancora, come scrive Maurizio Artale sul “Fatto quotidiano”, e comprende “una scuola,un centro polivalente sportivo, una palestra, una biblioteca, l’auditorium, un centro aggregativo per anziani, una casa di rifugio per mamme e bambini vittime di abusi e maltrattamenti.”
Ma il 15 settembre del 1993 3P viene ucciso per ordine dei fratelli Graviano.
Che aveva fatto questo prete umile ,operoso ,contrario ai gesti roboanti? Perché un uomo totalmente disarmato fece paura alla mafia? Il motivo c’è : Padre Puglisi, in realtà, senza armi, con i mezzi del “sorriso e della tenerezza” operava la più importante della rivoluzioni, quella delle coscienze. Come Gesù, come Martin Luther King, come il Mahatma Gandhi.
E la mafia lo capì,forse prima della società civile.
Stando,infatti, alle testimonianze dei pentiti, i clan della zona orientale della città, che si vantavano di aver piazzato le bombe nella penisola, rimproveravano i Graviano, boss del quartiere di Brancaccio, perché non si erano ancora liberati di quel “pretuncolo di periferia che dava tanto fastidio, in quanto i picciotti lo seguivano e non venivano più a sentire i discorsi di “Cosa Nostra”.
Afferma il pentito Giovanni Drago, che”Il prete era una spina nel fianco. Predicava,predicava,prendeva i ragazzini e li toglieva dalla strada. Faceva manifestazioni. Diceva che si doveva distruggere la mafia. Insomma, martellava, martellava e rompeva le scatole. Questo era sufficiente, anzi sufficientissimo per farne un obiettivo da togliere di mezzo”.
La mafia aveva, dunque, le sue ragioni per far fuori il prete “rompiscatole”, che proclamava il Vangelo, demistificando l’ideologia della violenza, della sopraffazione, del denaro.
Intendeva, uccidendolo, liberarsi di un ostacolo ai suoi loschi traffici,ma ritenne pericolosi anche i principi morali e religiosi a cui si ispirava. Agì, insomma “in odium fidei”. Di conseguenza, anche se l’uccisione di Padre Puglisi come fenomenologia rientra nel fatto di cronaca, nella sostanza però appare evidente che egli fu un martire, come appunto la Chiesa ha riconosciuto, avviando la causa di beatificazione.
Originariamente la parola “martirio” non aveva nulla a che fare con la morte, ma significava soltanto testimonianza. Essa, tuttavia, subì una vera e propria sublimazione semantica, spostandosi col cristianesimo in campo religioso. Gli elementi essenziali del martirio, secondo la Chiesa, divennero la fede e l’amore di Dio testimoniati pubblicamente, la morte violenta, l’odio della fede da parte del persecutore. Martire,insomma, viene considerato colui che sacrifica la propria vita per testimoniare il Kèrygma, cioè il messaggio evangelico.
Ed è proprio questo che distingue la morte dell’eroe da quella del martire: “la testimonianza”.
Si potrebbe pensare che , finita l’epoca delle persecuzioni dell’impero romano, non vi siano stati più martiri, ma non è così. Giovanni Paolo II ci ha fatto capire che l’esperienza del martirio è ancora attualissima e appare sempre più come esperienza globale. Il cosiddetto “secolo breve”, in realtà, ha versato molto sangue cristiano e suscitato molte forme di martirio. Padre Bartolomeo Sorge osserva che i nuovi martiri dei nostri tempi vengono uccisi soprattutto in odium amoris : Kolbe,Romero,Puglisi sono stati uccisi perché amavano la vittime del lager,i campesinos,i giovani di Brancaccio.
Ma perché per la beatificazione di un martire la Chiesa non ritiene necessario accertare un miracolo? Perché il martirio è un dono, una chiamata di Dio che riconosce ad alcuni la grazia di testimoniarlo col sacrificio della vita,è un messaggio agli uomini,una manifestazione dello Spirito,che indica a tutti la vita di alcune persone,i loro insegnamenti,i loro comportamenti come modelli evangelici.
Riconoscendo il martirio di Don Puglisi,la Chiesa riconosce che Dio è entrato nella storia della nostra Palermo, che ci ha parlato per mezzo di questa morte,facendo di essa un mezzo di salvezza per la nostra società e per la Chiesa stessa,che troppo spesso in passato ha taciuto. Nel prodigioso duello tra la vita e la morte,ha vinto la” vita” e una nuova luce ha illuminato l’umanità.
Ancora una volta “Sanguis martyrum semen est”!
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