di Valeria Viola
Ogni anno, a partire dal 2006, il 27 gennaio si commemora il Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale che celebra il ricordo delle vittime dell’Olocausto: l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, durante la 42ª riunione plenaria del 1º novembre 2005, scelse il 27 gennaio perché in questa giorno nel1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa aprirono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, scoprendo tutta la triste realtà che vi era dietro. Anche Palermo partecipa alla commemorazione con vari eventi e, tra questi, personalmente trovo molto interessanti – deformazione professionale! – le visite alla scoperta dei luoghi degli Ebrei.
Sì, perché gli Ebrei a Palermo ci sono stati, ma in un passato piuttosto remoto: difatti, nonostante l’interesse crescente per la cultura ebraica, la presenza ebrea in Sicilia ad oggi è esigua e non vi è una comunità ufficiale, ovvero – come ci spiega Evelyne Aouate, presidente dell’Istituto Siciliano di Studi Ebraici – non vi è nella città un numero sufficiente di uomini ebrei adulti (minimo 10) per fondarne una. D’altra parte, ben prima delle leggi razziali del 1938, gli Ebrei furono scacciati dall’Isola a causa dell’editto di Granada (detto anche “dell’Alhambra”) del 31 marzo 1492, per ordine del re Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia, che decretarono la loro espulsione da tutte le terre di Spagna. Tralasciando la presenza dei cosiddetti “criptoebrei”, cioè di coloro che continuarono nascostamente a professare il loro credo sotto la copertura di una falsa conversione al cristianesimo, possiamo dire che da quella data non abbiamo più in Sicilia una consistente presenza ebraica.
Eppure, così non era stato nei secoli precedenti.
La prof.ssa Clara Gebbia, docente dell’Università di Palermo, fa risalire la presenza documentata degli Ebrei almeno al III secolo d.C., mentre il prof. Francesco D’Agostino dell’Istituto Siciliano di Studi Ebraici specifica che l’ingresso in Sicilia avvenne almeno in 2 diverse ondate: dapprima arrivarono dall’Egitto gli Ebrei di lingua greca, più tardi quelli dal Maghreb, la cui lingua giudaica era mescolata a quella araba. Così nel Medioevo, le parole del mercante Benjamin Tudela ci testimoniano che, tra il 1170 e 1173, la città di Palermo contava circa 1500 famiglie ebree, che vivevano a fianco di altre etnie. Questa multiculturalità è, d’altra parte, anche dimostrata dalla famosa iscrizione lapidea del 1149 oggi conservata presso il Museo della Zisa e che è scritta in quattro lingue, ebraico, latino, greco bizantino e arabo.
Riferendoci a quei tempi lontani, è possibile ravvisarne ancora qualche traccia nel nostro centro storico? Certo la lettura del territorio è quanto mai ardua, data la scomparsa delle architetture originarie e l’esiguità delle indicazioni documentarie. Ma in questo compito ci facciamo guidare dalla Associazione Sicilia Antica, che proprio in questo periodo sta organizzando un corso di cultura e storia dell’Arte ebraica.
Partiamo, quindi, da un’importante informazione: gli Ebrei si assestarono aldilà delle mura punico-romane e, in particolare, sul versante meridionale allora caratterizzato dalla scomoda presenza del torrente Kemonia. L’insediamento, lungo e stretto ed in direzione monte-mare, doveva addossarsi all’attuale via Calderai ed essere accessibile attraverso la scomparsa Porta Judaica, nei pressi del portone laterale dell’attuale Facoltà di Giurisprudenza. All’interno del quartiere, Francesco D’Agostino racconta che doveva esserci più di una sinagoga, un ospedale-ospizio ed almeno un macello per la cucina kasher.
Il quartiere dei Giudei era diviso in 2 contrade: la Meschita e la Guzzetta. Di quest’ultima, situata verso il mare, non rimane pressoché nulla, specie dopo il taglio ottocentesco della via Roma. La Meschita, invece, che si trovava più a monte, è stata virtualmente ricostruita sulla base di documenti e di indizi toponomastici: secondo molti, nell’area tra il vicolo Meschita (appunto!) e la via Giardinaccio (il cui nome è forse memoria di un paludoso giardino sul Kemonia) sorgeva la sinagoga, secondo le fonti la più recente del quartiere (XV secolo); essa occupava il sito dell’attuale chiesa di San Nicolò di Tolentino e del suo convento, che oggi ospita l’Archivio comunale e l’imponente aula progettata nell’Ottocento da Giuseppe Damiani Almeyda. Secondo D’Agostino, la piazza esterna (detta “della Meschita”) ed il cortile interno al convento riprendono 2 spazi aperti già esistenti ai tempi della sinagoga e – sempre secondo lo studioso – ci sono buone possibilità che, nel costruire la sua aula, anche l’ingegnere abbia tenuto conto degli antichi confini di questi spazi.
La tradizionale presenza in questi luoghi di artigiani che lavorano i metalli (in via Calderai) e costruiscono sedie (in via Giardinaccio, sebbene qui ormai quasi del tutto scomparsi) confermerebbe la collocazione del quartiere ebraico palermitano, in cui molti ebrei esercitavano questo mestiere oltre a quello molto più redditizio della lavorazione e del commercio della seta. Le costruzioni alte, ancora visibili nel vicolo della Meschita, ricordano altri insediamenti similari, sebbene qui possano anche motivarsi con la necessità di sfuggire alle frequenti inondazioni del torrente Maltempo.
Risalendo il quartiere lungo la via Giardinaccio, si raggiunge il sito leggermente sopraelevato del Casalotto, dove ha una posizione preminente il Palazzo Marchese. Riguardo a quest’ultimo, ci rifacciamo ad un’indagine accurata che fu condotta dal Dr. Alessandro Gaeta e nel 2001 pubblicata in un testo sul complesso di Casa Professa curato dalla prof.ssa M.C. Ruggeri. Da tale ricerca, si appura che il Palazzo è stato variamente nei secoli utilizzato, ma in primis fu costruito verso la fine del Quattrocento dal Senatore Antonio Cusenza, che lo tenne fino al all’inizio del XVI secolo quando fu venduto alla famiglia Marchese da cui deriva il nome.
La relazione tra i Cusenza e la popolazione della Giudecca nostrana non è chiara: appare difficile che questa nobile famiglia fosse di origine giudaica dato che approfittò dell’editto di Granada per rilevare diversi immobili proprio dai Giudei cacciati. Eppure, nell’ipogeo presente all’interno del Palazzo è stata recentemente trovata una sala con gradini digradanti verso una vasca, che ha fatto pensare ad un possibile mikveh (bagno rituale per immersione). Le acque che lo riempiono sono ovviamente quelle del Kemonia, che riempivano anche le più ampie stanze vicine, a lungo usate come cisterne.
L’ipotesi che si tratti di un mikveh è ancora al vaglio degli esperti.
Chiunque voglia farsi un’opinione propria sull’argomento, sappia che martedì 27 l’ipogeo sarà visitabile.
Riprendendo le fila della nostra storia, ricordiamo che con l’avvento della dominazione aragonese e spagnola la situazione per gli Ebrei andò lentamente peggiorando fino all’allontanamento dall’isola conseguente al già citato editto di Granada: a quel tempo, la comunità siciliana si mosse alla volta di Istanbul e la Grecia, ma una parte di essa si rifugiò nell’Italia meridionale, trovando protezione sotto Ferdinando I. Alla morte di questi, però, con la conseguente occupazione spagnola furono tutti nuovamente cacciati nel 1510.
Interessante il fatto, riportato da un’altro studioso, il Dr. Antonio Matasso, secondo cui il Parlamento siciliano, contrario alla cacciata, riuscì a posticiparla quanto più poté, prorogando i termini dell’editto: sicuramente si capiva che l’allontanamento di una comunità molto attiva nel commercio e nell’artigianato avrebbe avuto conseguenze devastanti sull’economia della città.
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