di Giuseppe Savagnone
Ci si prepara al prossimo sinodo dei vescovi, che dovrà dare forma definitiva al dibattito sulla famiglia, inaugurato dall’altro, già celebrato nell’ottobre del 2014. Le questioni su cui si polarizzò, allora, il confronto e che registrarono una radicale divergenza di opinioni furono quelle dell’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati col rito civile e della valutazione da dare delle unioni omosessuali, pur escludendo che esse si possano in qualsiasi modo equiparare al matrimonio. Su di esse si concentrarono sia l’attenzione degli organi di informazione e dell’opinione pubblica, sia la discussione che coinvolse il mondo cattolico. E ancora ad esse sono dedicati in questi mesi convegni, conferenze, appelli, attraverso cui i sostenitori dell’una e dell’altra posizione si sforzano di evidenziare le loro ragioni e di far pesare il loro punto di vista.
Tutto questo è perfettamente comprensibile, trattandosi di problemi molto delicati, su cui si gioca da un lato la fedeltà della Chiesa alla sua tradizione, dall’altro la sua capacità di rispondere alle attese degli uomini e delle donne del nostro tempo. Ma, nella misura in cui essi sembrano assorbire in modo esclusivo l’attenzione di tutti, credenti e non credenti, fedeli e gerarchia ecclesiastica, essi rischiano di distogliere l’attenzione da altri, non meno importanti, anzi forse più decisivi sotto il profilo propriamente pastorale.
In realtà, se appena ci si riflette, non sarà certo la risposta che la Chiesa darà alla questione dei divorziati risposati e delle unioni omosessuali ad essere decisiva per le sorti della famiglia. Né i fautori di una conferma dello stile pastorale attuale né quelli di un suo cambiamento possono seriamente sostenere che dal prevalere della loro opinione dipenda la rivalutazione di questa istituzione. I primi, perché la loro linea comporta semplicemente la continuazione di un regime che non ha affatto impedito la sua crisi. I secondi perché non sarà un atteggiamento di maggiore misericordia verso coloro che ne sono vittime ad incidere sulle sue radici e a risanarle.
Perciò, per quanto legittima sia la passione con cui si discute di questi temi, dal punto di vista del contributo che la Chiesa può dare alla famiglia essi sono secondari rispetto ad altri, primo fra tutti quello di una adeguato accompagnamento delle coppie che intendono sposarsi, sia prima che dopo il loro matrimonio.
Proprio su questo, peraltro, al contrario che sugli altri a cui si accennava, il Sinodo dell’autunno scorso ha visto una larghissima convergenza di vedute. Nella Relazione finale si legge, al n.39: «La complessa realtà sociale e le sfide che la famiglia oggi è chiamata ad affrontare richiedono un impegno maggiore di tutta la comunità cristiana per la preparazione dei nubendi al matrimonio».
Alcuni hanno osservato, a questo proposito, che il vero scandalo non è il divorzio di persone che si sono sposate in chiesa, ma il loro matrimonio. È il punto debole della posizione di quanti vorrebbero solo la conferma della prassi attualmente in voga. Davvero si salva il senso del sacramento limitandosi a penalizzare, come ora si fa, coloro che, avendolo celebrato con la superficialità e l’impreparazione spirituale oggi abituali, non sono riusciti poi a restargli fedeli? Davvero il sacrilegio consisterebbe – come molti sostengono appassionatamente – nell’accostarsi di queste persone all’eucaristia, o non è piuttosto, il modo in cui si sono accostate al matrimonio stesso?
Ma anche ammetterle ai sacramenti, dopo il naufragio del vincolo matrimoniale, non sanerebbe certo le responsabilità di una Chiesa che, con la sua acquiescenza, ha creato le condizioni di questo naufragi!.
Non solo. Bisognerebbe anche accompagnare la famiglia nascente nei suoi primi passi. Giustamente i padri sinodali, nella Relazione finale, hanno sottolineato che «i primi anni di matrimonio sono un periodo vitale e delicato durante il quale le coppie crescono nella consapevolezza delle sfide e del significato del matrimonio. Di qui l’esigenza di un accompagnamento pastorale che continui dopo la celebrazione del sacramento» (n. 40).
Oggi quello che dovrebbe essere un lavoro capillare e continuativo della comunità cristiana si riduce spesso a qualche iniziativa riservata a poche coppie volenterose. La stragrande maggioranza si sposa e vive la vita della famiglia in solitudine, limitandosi a contatti occasionali con una comunità parrocchiale vista come “stazione di servizio”.
È di questo, forse, che oggi si dovrebbe soprattutto parlare. E, come si diceva prima, su questo terreno si potrebbero scoprire e approfondire tra i vescovi – ma anche in tutto il popolo di Dio – ampie convergenze che non vanificherebbero certo i dissensi sugli altri punti, ma li relativizzerebbero. Il rischio è che avvenga – come sta avvenendo – il contrario: e cioè che lo scontro su questioni importanti, ma non risolutive per il futuro, faccia passare del tutto in secondo piano l’accordo e la possibile collaborazione nell’affrontare quelle decisive.
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