di Maurizio Muraglia
La prima parte di questo contributo ha posto la questione del rapporto tra indicazioni ministeriali – che le scuole superiori spesso leggono ancora quali “programmi” da svolgere – e quantità effettiva di oggetti culturali proponibili agli studenti reali. In questo secondo passaggio, vedremo come l’esperienza a contatto con gli studenti mostri l’implausibilità di un modello di insegnamento centrato sulla quantità di contenuti da trasmettere.
Che esperienza fa, oggi, un insegnante che entra quotidianamente in classe nella secondaria superiore?
Alla prima ora almeno 15 minuti andranno via per appello, giustificazioni e ritardi. Gli adolescenti vanno a letto tardi. La ricezione, a detta di gran parte di loro opportunamente intervistati, a prima ora è proprio bassa. L’insegnante della prima ora ne terrà conto? Li stimolerà adeguatamente? O partirà sparato con la spiegazione? E con quali risultati?
I ragazzi dai banchi mandano segnali. Attenzione, disinteresse, inquietudine, passione, curiosità, preoccupazione, dai banchi arrivano feedback di varia natura che hanno a che fare con l’apprendimento. Oppure domande, obiezioni, sottolineature. Che ne fa l’insegnante? Non “perderà tempo” con questi segnali? E se perdesse tempo però non finirebbe per rallentare la sua corsa, mentre inesorabile suona la campana della prima ora? Chi non ha fatto l’esperienza di avere chiarito in 40-45 minuti un solo concetto, un solo passaggio scientifico o storico? E poi arriva il collega dell’altra ora.
“Posso andare in bagno?”. Sono le 9. No, il regolamento dice che devi andare alla ricreazione. Bene, stai nel banco ubbidiente, sia che ne avessi davvero bisogno sia che lo facessi soltanto per igiene mentale. Così inizia la seconda ora. Avrà un nesso con la precedente (a meno che non si abbiano due ore consecutive della stessa disciplina)? Non dico qui necessariamente un nesso culturale, ma anche un nesso emotivo? Se nell’ora precedente non si è capito nulla, come reagisce la classe nell’ora successiva? “Non siamo psicologi”. Quindi, avanti tutta. Bene. Da pagina 25 a pagina 35. Fine della seconda ora.
La terza ora precede la ricreazione. Le richieste di andare in bagno come richieste di igiene mentale aumentano. Se l’insegnante è rigido dirà ancora no. E la tensione aumenterà, ed i cellulari continueranno a vibrare. Ed il contenuto verrà spiegato. “Questa generazione non sa affrontare la fatica”. Perché sono sdraiati, come scrive Michele Serra. Da pagina 50 a pagina 60. Compiti per casa.
La ricreazione e poi si rientra.
Tutto quel che segue la ricreazione non può che ricalcare ed incrementare quel che è avvenuto prima. Subentra la stanchezza e con la stanchezza aumentano le interferenze con l’apprendimento.
Tutto questo si verifica in misura forse minore nei Licei Classici ed in misura massima nei Professionali. Per default. Rappresenta cioè una variabile assegnata per tutti gli insegnanti, e gli insegnanti programmisti la vivono con particolare sofferenza perché avvertono più di altri l’angoscia della perdita di tempo e finiscono per creare in classe delle vere e proprie pentole a pressione. I giovani perdono tempo e l’insegnante deve sbrigarsi. Pertanto la quantità di cose da fare risulta essere una violenza. Questa è la lotta tra i programmisti e i vari ostacoli quotidiani, posti dai ragazzi, ma i nemici della quantità e della serietà non finiscono qui. Ce ne sono altri, insiti nello stesso processo di insegnamento-apprendimento, che chi va in classe non dovrebbe ignorare e che sostanziano le domande interiori che ci si dovrebbe porre mentre si è in aula. Domande pericolose, perché preludono a far perdere tempo. Proviamo a riassumerle.
Come inserisco questo argomento tra gli altri che hanno già svolto? Come si genera la necessità di trattare adesso questo?
Perché ritengo che si debba trattare? E perché devo convincerli a ritenere che si debba imparare?
Che aggancio può avere con la loro esperienza e con la loro esistenza?
Che esempi posso fare perché sia reso vivo e attuale?
Come faccio a fare emergere le loro difficoltà? Li faccio parlare? Organizzo un’attività cooperativa?
Sono solo alcune delle domande che l’esperienza di insegnamento suscita. Domande che richiedono discussioni con i ragazzi. Dieci, quindici, trenta minuti, un’intera ora. Poi ci sono le domande occasionali, quelle suscitate da un intervento di un alunno, che inducono a riposizionare il contenuto, ad inserire una digressione o un esempio. Più i ragazzi sono attratti e interessati da un contenuto, più tempo si perderà nel celebrare il matrimonio tra loro e quell’argomento. Che magari, se proprio non cambia loro la vita, li rende capaci di capire importanti aspetti della vita. E allora bisogna perdere del tempo su questi aspetti, perché è solo l’irruzione dell’interesse che apre la strada verso le competenze. E vanno via giorni e giorni magari su uno stesso tema, e ci si accorge che quel tema circola in classe in modo qualitativo e ci si rallegra di questo. Diciamolo apertamente. L’insegnante delle superiori che non ha fretta è un insegnante che lavora bene, favorisce l’apprendimento ed ama il suo lavoro. E gli studenti lo amano. Con buona pace delle ragioni ordinamentali prima evocate. Chi apprende a lavorare senza fretta ci prova gusto e non torna più indietro.
Qualcuno può alzare il dito obiettando che tutto ciò è inutile? O buonista? Oppure che va bene per gli Istituti Tecnici e Professionali ma non per i Licei Classici e Scientifici dove si dovrebbe “studiare”? E chi ha detto che indugiare su una quantità non eccessiva di contenuti emblematici della disciplina, approfondirli, legarli ad altre discipline, costruire un contesto di lavoro cooperativo non voglia dire “studiare”? Studiare sarebbe soltanto passare in rassegna velocemente contenuti su contenuti? Qualcuno afferma saggiamente che gli insegnanti sono come gli scultori: piuttosto che aggiungere dovrebbero togliere, per fare emergere una forma. Ecco, la formazione umana e culturale di uno studente, che è un modo più alto per dire “competenza”, dovrebbe scaturire da questa azione di snellimento contenutistico senza se e senza ma. E il centro dovrebbe non solo incoraggiare quest’azione, ma censurare dichiaratamente le pratiche di accumulo contenutistico e raccomandare alle commissioni d’esame di guardarsi bene dal censurare eventuali mancanze di contenuti ritenuti “imprescindibili”[2]. Quando si parla a tutti i livelli di competenze, si tralascia di dire che il re è nudo: lo sviluppo di una competenza è inversamente proporzionale alla quantità di nozioni somministrate ai ragazzi perché insegnare per competenze significa incentivare atteggiamenti e ciò avviene all’interno di contesti didattici attivi, riflessivi, conversazionali, formativi. Quanto più “programma” si svolge e quanto più si trasmettono nozioni, tanto più si opacizza la possibilità di costruire quelle competenze durature che poi si vorrebbero certificare. Chi dovrebbe dir questo a voce alta è proprio il MIUR, e il “merito” delle commissioni di esame dovrebbe esser quello di non apprezzare documenti del 15 maggio troppo pieni di contenuti e giudicare positivamente la trattazione di pochi emblematici argomenti, affrontati in modo competente, cioè critico e culturalmente contestualizzato. E di concepire l’Esame come prevede la normativa, ovvero come il momento della verifica delle competenze acquisite.
Come scrisse un cantautore, tutto il resto è noia. Noia dei ragazzi, noia di chi insegna. Volare più in alto è volare più leggeri.
[2] Ho trattato più ampiamente questi temi qualche anno fa, al tempo del riordino Gelmini, in alcuni contributi cui rimando anche per la bibliografia ivi segnalata: E ora…se blindiamo i contenuti, in “Insegnare” 4/2010; Le Indicazioni tra vecchi (?!) programmi e nuovi (?!) curricoli, in “Rivista dell’istruzione” 4/2010; Buongiorno, entra il programma, in “Scuolainsieme” 1/2011.
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