di Giuseppe Savagnone
Quale che sia l’esito delle modifiche a cui il ddl Cirinnà verrà sottoposto, nelle faticose trattative tra le forze politiche, i termini del problema sono ormai molto chiari e non sarà un comma o l’altro della futura legge a modificarne i termini. Una parte consistente del parlamento e dell’opinione pubblica ritiene che la differenza di sesso sia una condizione necessaria perché esistano il matrimonio e la famiglia, un’altra parte, di consistenza grossomodo equivalente, ritiene questa condizione frutto di un pregiudizio superato e arbitrario.
La prima linea è sostenuta da buona parte dei cattolici, che non hanno mancato di far sentire la loro voce attraverso manifestazioni di massa come il Family day. La seconda ha dalla sua la tendenza culturale ampiamente dominante in Europa e il prestigio della maggioranza degli intellettuali italiani, compreso un discreto numero di credenti che non si riconoscono nella battaglia dei loro correligionari e vedono in essa un triste esempio di conservatorismo.
In questo contesto, non è difficile prevedere l’esito finale della battaglia in corso. Si potrà limare quanto si vuole il ddl Cirinnà, ma saranno i giudici, poi, a far rientrare dalla finestra ciò che si era cercato di far uscire dalla porta. E questo avverrà sull’onda di una cultura che va chiaramente nella seconda direzione e che non resta confinata nelle accademie, ma trabocca ed esercita il suo influsso martellante attraverso i film, i telefilm, la pubblicità, gli appelli pubblici di autorevoli personaggi del mondo letterario e dello spettacolo, perfino attraverso i messaggi lanciati dai cantanti al festival di Sanremo (cosa sarebbe accaduto se uno di loro avesse esibito una scritta tipo “stop ai matrimoni gay”?).
Questa netta egemonia culturale si fonda, più che su discussioni sul merito del problema, su due argomenti di carattere preliminare, sistematicamente ripetuti. Uno è l’evidente anacronismo delle resistenze al matrimonio gay di fronte al fatto che in tutta l’Europa esso è ormai considerato normale e che gli stessi organi dell’Unione europea denunciano il suo mancato riconoscimento, nel nostro paese, come una evidente violazione dei diritti umani. L’altro è che non si vede in che cosa il riconoscimento giuridico del diritto delle persone omosessuali a sposarsi leda gli interessi degli altri cittadini, che restano ovviamente liberissimi di fare nozze eterosessuali.
Il primo argomento sembra a prima vista risolutivo, anche perché si associa alla sensazione che la storia e il progresso vadano inesorabilmente in questa direzione. Qualche sospetto, però, lo dovrebbe destare il fatto che, proprio in questi giorni, la grande maggioranza degli Stati che si appellano ai diritti umani quando si parla del matrimonio omosessuale, facciano a gara nel costruire alti muri per impedire l’ingresso, nei loro confini, delle masse di poveri e di diseredati che chiedono solo di poter vivere più umanamente. Anche questo – certamente è una tendenza storica ben precisa – costituisce un “progresso”?
La verità è che i diritti di cui questi Stati parlano sono quelli modellati, nella tradizione borghese, sull’individuo e sulla sua possibilità di fare ciò che corrisponde alle proprie preferenze, senza dover rispondere a nessuno, purché non invada la sfera altrui. Un modello insulare secondo cui – come nella proprietà privata, a cui ispira (si parla, infatti, di “individualismo possessivo”) – la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro. In tale logica, ogni pretesa soggettiva può essere considerata un bisogno reale e ogni bisogno un diritto. In questo arcipelago di solitudini, il rispetto per gli altri è un valore assoluto, ma prevede solo che li si lasci vivere come possono e come vogliono. Ciò che accade nell’isola accanto alla nostra non ci riguarda.
Si capisce che, in questa logica, sia molto più importante garantire a persone, che hanno i soldi per farlo, il diritto di ricorrere all’utero in affitto, spendendo migliaia di euro, per soddisfare la loro esigenza di avere un figlio, che non fare leggi e investire risorse per gli immigrati o in genere per proteggere i più poveri.
Qualcuno potrà obiettare che le due cose non sono in alternativa. I fatti dicono il contrario. E non solo per l’Europa, ma anche per il nostro paese, dove a denunciare la condizione di 400.000 lavoratori agricoli, l’80% dei quali stranieri, vittime del caporalato che li tiene a lavorare per dodici ore al giorno al prezzo di 2,50 euro l’ora, non sono i giornali della grande borghesia e della sinistra – che da settimane gridano alla violenza e all’inciviltà, invocando gli standard europei, per il mancato riconoscimento del matrimonio omosessuale – , ma l’oscurantista giornale dei vescovi «Avvenire». E’ sotto gli occhi di tutti, del resto, che i partiti che un tempo rappresentavano le esigenze dei poveri e dei lavoratori, oggi sono ossessionati quasi esclusivamente dalla tutela dei diritti, nella prospettiva individualista di cui parlavo, finendo per essere succubi di quelle logiche borghesi che un tempo combattevano. Chiediamoci: chi sarebbe disposto a bloccare il parlamento e l’opinione pubblica per un mese discutendo i problemi di questi (400.000!) poveracci?
Quanto al secondo argomento, troppo spesso si parla di questi problemi restando prigionieri, ancora una volta, di una logica individualista che dimentica l’influsso che le leggi, nel soddisfare le esigenze di alcuni, hanno sulla comunità. Una legge non serve solo a risolvere dei problemi: contribuisce a dare un volto alla società. Crea un costume e, perciò, influisce non solo sul presente di alcuni, ma sul futuro di tutti. Lo notava già Aristotele, insistendo sulla funzione educativa delle leggi: «I legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini, e questo è il disegno di ogni legislatore, e coloro che non lo effettuano adeguatamente sono dei falliti; in questo differisce una costituzione buona da una cattiva» (Etica Nicomachea, 1103 b). Il riconoscimento del matrimonio omosessuale non può non influire sulla coscienza collettiva. Si può discutere in che senso. Ma almeno bisognerebbe porsi la domanda.
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