di Giuseppe Savagnone
Il compiersi dei tre anni di pontificato segna per papa Francesco l’ora di un primo, sommario bilancio. Ampiamente positivo, per molti versi, problematico per qualcun altro. Qui evidenzierò solo alcuni punti che mi sembrano particolarmente significativi.
Francesco può sicuramente essere considerato il papa che, dopo il Concilio, ha meglio interpretato la sensibilità degli uomini e delle donne contemporanei, coniugando la ricchezza del vangelo, così come era stata espressa dal grande santo di cui ha voluto portare il nome, con la capacità di tradurla in simboli psicologicamente efficaci, propria dell’ordine religioso da cui proviene. Da buon ammiratore e imitatore di san Francesco d’Assisi e da buon discepolo di sant’Ignazio di Loyola, questo pontefice ha saputo dare del suo ruolo, tradizionalmente ingessato in uno stereotipo fortemente sacrale, una versione sorprendentemente dialogica, che ha conquistato – a partire da quel «Buonasera!» subito dopo la sua elezione – il cuore di credenti e non credenti.
Per quanto, in particolare, riguarda questi ultimi, a memoria d’uomo nessun pontefice (tranne forse Giovanni XXXIII) era stato così apprezzato da quanti hanno sempre guardato con sospetto l’istituzione ecclesiastica. Ma anche per moltissimi credenti, che avvertivano con sofferenza i limiti del modello di papa offerto da Benedetto XVI, lo stile di Francesco è stato una salutare boccata d’ossigeno. Anche il suo predecessore, peraltro grande teologo e spirito fine, era attento ai simboli. Per fare solo un esempio, le sofisticate scarpe rosse, che tutti criticavano come segno di lusso, volevano in realtà simboleggiare il fuoco dello Spirito! Il guaio è che la gente non capiva questo tipo di messaggi, mentre ha colto a volo quelli del nuovo papa, che rifiuta di abitare nei sontuosi appartamenti vaticani e viaggia di preferenza su modeste utilitarie.
Non si tratta, però, solo di una differenza di stile esteriore. Francesco ha valorizzato un aspetto del Vangelo che è sempre stato creduto vero, ma scarsamente sottolineato dai suoi predecessori, più attenti al messaggio morale del cristianesimo: la misericordia. Che non è semplice compassione verso gli infelici, ma fiduciosa e incondizionata disponibilità al perdono nei confronti dei peccatori. È questo, per l’attuale pontefice – non i “valori non negoziabili” o i singoli dogmi della tradizione cattolica – il nucleo dell’annuncio che la Chiesa deve rivolgere al mondo. Francesco ha ricordato con forza che il mandato fondamentale affidato da Cristo alla sua Chiesa è stato di andare verso le desolate periferie dell’esistenza in un atteggiamento di incondizionata apertura a tutti, buoni e malvagi, giusti e peccatori, pii fedeli o acerrimi nemici dell’istituzione ecclesiastica, senza pretendere in cambio una esplicita professione di fede su tutti i punti del Credo né un’accettazione delle sue posizioni in campo morale.
Reciprocamente, la stessa comunità ecclesiale, da cittadella assediata, testimone coerente di verità e di santità, è stata reintepretata dal papa come “ospedale da campo”, in cui devono potersi sentire di casa anche i feriti e i malati di questa società disorientata e spietata. In questo modo la Chiesa, considerata da credenti e non credenti un’istituzione assolutamente prevedibile, dai percorsi rigidamente precostituiti, è diventata la maggiore fonte di sorprese di questi ultimi anni (e di questo bisogna riconoscere il primo merito a Benedetto, con la sua stupefacente e coraggiosa decisione di dimettersi).
Tutto ciò ha scandalizzato profondamente chi, in nome dei “valori”, era abituato alla immutabilità. Mai, dai tempi dello scisma d’Occidente, un papa aveva suscitato tanta divisione nella Chiesa. Si è perfino tentato di delegittimarlo a livello giuridico. Lo si è accusato di eresia. E qualcuno ha anche ventilato la possibilità dello scisma. Si è fatto notare che la misericordia non è buonismo e che il perdono viene dato solo a chi prima si pente e cambia vita. Eppure il modello della misericordia di Francesco si trova, tale e quale, nel vangelo. Gesù non ha chiesto nulla all’adultera come condizione preventiva: l’ha perdonata e basta. Non ha chiesto nulla a Zaccheo: è andato a casa sua e basta. Perciò ha scandalizzato gli onesti ebrei del suo tempo.
Ma non era buonismo, come non lo è quello di Francesco. La misericordia è gratuita, ma, al tempo stesso, esigente: «Va’, e d’ora in poi non peccare più», ha detto Gesù alla donna. E Zaccheo si è sentito in obbligo di promettere di restituire il mal tolto. Ma l’ha promesso dopo che Gesù gli aveva usato misericordia. Perché, sul modello dell’amore creatore di Dio, che produce l’essere dal nulla, come pura, inattesa novità, questo perdono non è prodotto dall’impegno dell’altro, sul modello del do ut des, ma è un dono del tutto gratuito, che fa nascere il bene dove non c’è, che non suppone, ma suscita la conversione.
Perché i doni, proprio in quanto inattesi, colmano di gioia e di gratitudine il cuore di chi li riceve e gli fa prendere coscienza della dignità perduta, dandogli la forza per recuperarla. Il figlio della parabola, quando tornò a casa , si era ridotto a un servo e tale chiedeva di essere, ma il padre, prima che chiedesse perdono, gli mise l’anello a dito e la veste di figlio. Questo è il vangelo e dobbiamo essere grati a Francesco di avercelo ricordato.
Parlavo prima di aspetti problematici. Riguardano la capacità di questo papa di trovare adeguati collaboratori. Su questo piano alcune sue scelte sono sembrate finora poco felici, altre oscillanti. Il grande rischio è che il suo enorme carisma gli faccia credere che in fondo basti il suo rapporto con la gente. Nel suo paese d’origine molta politica si è fatta per decenni così. Sarebbe un grave errore. Non basta rinnovare i simboli culturali e instaurare nuovi stili di annuncio: bisogna cambiare anche l’istituzione, e per questo servono organismi e persone di fiducia. A rassicurare, però, è l’attenzione di Francesco nella nomina dei nuovi vescovi, scelti da lui secondo una logica diversa dal passato. Non più dai palazzi della diplomazia o da quelli del Vaticano, ma dalla gavetta della pastorale di parrocchia. E anche questo segna una rivincita dell’inatteso.
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