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La Domenica delle palme

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di Luciano Manicardi

   

   Dietro alla narrazione del cammino di Gesù verso Gerusalemme, il vangelo lascia intravedere il cammino di Cristo verso il Padre e la guida che egli esercita sulla chiesa dall’alto dei cieli.

 

   Anzitutto viene presentata la missione: “Gesù inviò dicendo: ‘Andate’… Essendo andati quelli che erano stati inviati…” (vv. 29-30.32). Una missione che esige dai cristiani, da un lato, la capacità di rendere conto dei gesti che si compiono a chiunque ne chieda conto (vv. 31-34), dall’altro, la capacità di motivazioni il loro agire sulla base del Vangelo, della Parola del Signore. I gesti compiuti dalla chiesa nella sua missione nel mondo non mirano alla soddisfazione o all’eliminazione di un suo bisogno, ma sono obbedienza alla Parola del Signore e manifestano il bisogno del Signore, narrano un Signore che viene all’uomo nella povertà e nell’umiltà, perché solo così – nella condivisione della povertà – può avvenire l’incontro. La ricchezza che gli inviati portano con sé è tutta nel ridire le parole che il Signore ha consegnato loro (vv. 31.34): parole che, mentre proclamano la povertà e l’indigenza dell’inviante, situano nella povertà e nell’indigenza l’inviato stesso. Il racconto dell’ingresso messianico di Gesù nella sua città diviene la paradossale proclamazione di un Signore bisognoso e indigente. Viene così indicato alla chiesa che i bisogni e le mancanze che essa può patire possono divenire motivo di fiducia invece che di angoscia. Fiducia nel Signore e forza di comunione con i poveri e i bisognosi a cui è rivolto il vangelo.

 

   Nel v. 37 si afferma che tutta “la folla dei discepoli” lodava Dio a gran voce. Luca utilizza di nuovo l’espressione in At 6,2 per indicare i cristiani. Al rimprovero che i farisei intendono rivolgere ai discepoli attraverso Gesù, questi risponde dicendo: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre” (v. 40). Il testo intravede la possibilità di un silenzio colpevole della chiesa: c’è una confessione di fede, una proclamazione della lode del Signore, un riconoscimento dei suoi prodigi, che non possono essere taciuti, pena la sconfessione del proprio statuto di cristiani. Ignavia, codardia, vergogna, complicità, paura, interesse, convenienza, conformismo: tanti sono i motivi che possono spingere il cristiano a tacere quando dovrebbe parlare oppure a dire parole non più abitate dallo scandalo evangelico, parole allineate, parole che non scomodano. E sia chiaro che le parole evangeliche non scomodano solamente coloro che le ascoltano, ma anzitutto chi le pronuncia. Perché lo pongono nella situazione di povertà, inermità e bisogno che sono proprie del suo Signore. La condivisione della povertà del Signore è la condizione dell’autorevolezza e della credibilità della chiesa tra gli uomini.

 

   L’acclamazione della folla dei discepoli proclama benedetto “Colui che viene” (v. 38; cf. Sal 118,26). Nome del Signore è “il Veniente”. Ora, in quanto Veniente, il Signore non è presenza addomesticabile, non è possesso, non è realtà già conosciuta e non foriera di novità. Il Veniente ricorda alla chiesa che della confessione di fede fa parte l’apertura allo stupore e alla meraviglia, la disponibilità a mettersi in discussione, a farsi interpellare dalle novità della storia. Solo in quanto Veniente il Signore è anche il Vivente. E la confessione e la testimonianza della chiesa hanno la responsabilità di annunciare il Vivente, non – come fanno i discepoli di Emmaus – un morto (cf. Lc 24,19-24).

 

   Gesù precede i suoi salendo verso Gerusalemme, la “città della pace”, la città che uccide coloro che sono inviati a lei (cf. Lc 13,34) e su cui Gesù piangerà perché non ha saputo riconoscere la via della pace (cf. 19,41-42). Il cammino verso la pace richiede un’esigenza: il non fare violenza. La regalità di Cristo non è di questo mondo proprio perché, a differenza delle regalità mondane che legalizzano la violenza e se ne servono, Gesù ne rifiuta radicalmente l’uso, rifiuta di creare vittime. Egli è il Re radicalmente non violento, fino ad assumere la violenza su di sé sulla croce, epifania massima della sua paradossale regalità.

 

Dal sito della Comunità Monastica di Bose

 

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