di Giuseppe Savagnone
Anche quest’anno le chiese di Palermo – come del resto, in genere, tutte quelle del Sud d’Italia – si sono riempite fino all’inverosimile, in occasione delle funzioni pasquali. Anche persone che di solito non frequentano la messa domenicale tengono molto a questo appuntamento. Nella maggior parte dei casi non è solo folklore. C’è, al fondo, il legame profondo che ancora lega il popolo meridionale al cattolicesimo.
A fronte di questa constatazione, apparentemente rassicurante per la Chiesa, acquista ancora più evidenza e drammaticità lo spettacolo offerto dai comportamenti concreti di queste stesse persone sulla scena pubblica. È sotto gli occhi di tutti che la Sicilia e gran parte del Mezzogiorno (con l’eccezione, forse, della Puglia) sono da tempo in caduta libera, sotto tutti i profili – economico, politico, culturale – , e con velocità sempre crescente. Il dato, spesso citato, della fuga dei cervelli – studenti o laureati costretti, loro malgrado, a cercare il proprio futuro al Nord o addirittura all’estero – è solo la punta dell’iceberg. Ma non è altro che un aspetto – anche se particolarmente allarmante, perché gravido di conseguenze – della situazione caotica in cui versa la società meridionale.
Come causa di questo degrado galoppante si possono certamente denunziare le sciagurate politiche nazionali, da troppo tempo, al di là della retorica ufficiale, orientate a penalizzare il Sud (si pensi, per fare solo un esempio, all’Università). Ma non bisogna dimenticare che quando, in passato, il Paese ha fatto i maggiori investimenti per risolvere l’annosa “questione meridionale” (vi ricordate la Cassa per il Mezzogiorno?), l’esito è stata la spartizione del bottino tra i potentati mafiosi o para-mafiosi della politica. E che non sia questione di soldi, ma della capacità di usarli, lo dimostra, da anni, la mancata fruizione o lo sperpero dei contributi europei, grazie ai quali le aree depresse di altre Nazioni sono state in grado di fare un salto di qualità, e che invece, nel nostro Meridione, spesso sono tornati al mittente per incapacità dei destinatari di elaborare dei progetti adeguati.
No, non è questione di soldi, ma di cultura. Dei meridionali si dice spesso che «hanno una marcia in più» in fatto di intelligenza e di fantasia. Non so se sia vero. Quel che è certo è che essa si rivela solo quando emigrano. È il clima culturale che regna da noi, non la povertà, a determinare la crisi delle nostre regioni. Un clima che riguarda in primo luogo la classe politica, o quella amministrativa, ma non solo.
Con tutte le responsabilità che, senza sconti, vanno attribuite (con sparute eccezioni) alla tragica autoreferenzialità dei nostri politici e dei nostri amministratori, bisogna pur dire che governare e amministrare correttamente un popolo ignaro, come il nostro, delle logiche della cittadinanza e visceralmente estraneo al senso del bene comune della collettività sarebbe comunque – se pur qualcuno ci provasse – un’impresa disperata.
Quelle stesse persone che in questi giorni hanno riempito le chiese, baciato la croce, visitato i sepolcri, ricevuto l’eucaristia, non rispettano le regole più elementari dell’educazione stradale, ammucchiano i sacchetti d’immondizia agli angoli delle strade (figurarsi se si attengono ai criteri della differenziata), come dipendenti del servizio pubblico lavorano svogliatamente, non rispettano i turni e si imboscano, quando addirittura non ricorrono a minacce o ad atti di violenza e di balordo vandalismo. Si parla spesso del cancro della mafia. Non voglio minimizzarne l’estrema gravità. Ma in questo momento, prima che all’organizzazione criminale, il termine mi fa pensare ad atteggiamenti e stili di comportamento che non sono direttamente ascrivibili a Cosa Nostra, ma ad una mentalità diffusa.
Qualcuno malignamente fa il confronto tra lo stile del popolo cattolico e quello di Paesi protestanti, dove il senso della legge e della civiltà domina le coscienze, prima ancora di essere prescritto dallo Stato. E si chiede se non sia una secolare abitudine ad essere sempre e comunque perdonati, nel sacramento della riconciliazione, ad avere favorito il lassismo delle popolazioni cattoliche.
Non sono in grado di dare una risposta definitiva sull’argomento, anche se mi lascia perplesso il fatto che altri popoli di antica tradizione cattolica, come la Francia, hanno un senso assai più sviluppato dell’etica pubblica. Quel che è certo è che, come membro della comunità cristiana, sento che la soddisfazione per la massiccia partecipazione ai riti di Pasqua si trasforma dentro di me in una profonda inquietudine. Perché è chiaro che tutto questo nasce da un fallimento dell’evangelizzazione. Essa, infatti, ha di mira non solo e non tanto la salvezza delle “anime”, ma quella degli uomini e delle donne nella loro integrale umanità, di cui la dimensione relazionale e sociale è parte integrante e fondamentale. E, in un territorio dove la sola realtà chiamata a svolgere questo compito tramite la sua capillare presenza, è la Chiesa, il fallimento è di tutti coloro che ci riconosciamo in essa.
Qualcosa deve cambiare nella nostra pastorale, perché sia degna della Pasqua che in questi giorni abbiamo celebrato. La passione la stiamo vivendo già. Ora è il momento della resurrezione. E questa comporta la nascita di un «uomo nuovo». Per formarlo, le parrocchie, in particolare, devono andare al di là di una pura prassi ritualistica e accentuare il loro ruolo educativo – non fermiamoci al catechismo per la prima comunione! – , gettando i semi di una nuova cultura, cristiana, ma per questo anche pienamente umana, in cui non può non rientrare anche il senso del bene comune.
Sciascia una volta ha scritto, con amara disillusione, che la Sicilia è irredimibile. Ora, Pasqua è la festa della redenzione. Se non vogliamo che tutto quello che abbiamo detto e fatto nelle nostre chiese si riduca a una vuota ritualità, qualcosa deve cambiare – noi dobbiamo cambiare! – , per dimostrare che questa redenzione riguarda anche il Sud.
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