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Il commercio della salute

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di Giuseppe Savagnone

 

   Fra le disfunzioni strutturali che caratterizzano il mondo globalizzato, dividendolo drasticamente in aree del benessere e aree del sottosviluppo, una delle più drammatiche è quella che riguarda l’aspetto sanitario. Nelle prime, infatti, le cure sono così abbondanti da creare addirittura dei problemi; nelle seconde si muore ancora di malattie che sarebbero facilmente curabili.

 

   Su quest’ultimo punto, i dati sono indiscutibili e sconcertanti. Milioni di persone nei Paesi del Terzo Mondo non hanno accesso alle cure sanitarie, ai farmaci e ai vaccini disponibili nei Paesi industrializzati e muoiono, vittime di malattie come la malaria, la tubercolosi o la lebbra, che sono praticamente scomparse nei Paesi ricchi. Dieci milioni di bambini di età inferiore ai 5 anni muoiono ogni anno a causa di malattie infettive, per le quali esistono cure nei Paesi sviluppati. Tre milioni di bambini muoiono ogni anno perché non sono stati vaccinati. E questo per un motivo semplicissimo: queste persone sono povere e non sono in grado di pagare questi vaccini e questi farmaci  alle grandi industrie farmaceutiche (naturalmente sorte e operati nel mondo industrializzato) che, di conseguenza, non li fabbricano nemmeno più. Al punto che è ormai entrata in uso l’espressione «farmaci orfani» e «vaccini   orfani» per indicare questi prodotti in sé utilissimi, anzi in molti casi indispensabili a salvare delle vite umane, ma “abbandonati” da chi ne ha il brevetto e non più in commercio.

 

  A fronte di questi scenari – che peraltro nella maggior parte dei casi ci lasciano indifferenti, perché li avvertiamo lontani dalla nostra esperienza – ci sono quelli di una società sempre più medicalizzata, in cui il ricorso a farmaci, interventi chirurgici e specialisti della salute è aumentato in modo esponenziale.

 

  All’origine di questa medicalizzazione sta la definizione di salute, contenuta nel documento istitutivo dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità)  del 1946, secondo cui essa «non è soltanto l’assenza di affezioni o malattie, ma è il completo benessere fisico, psichico e sociale». Una definizione profondamente innovativa rispetto al passato, che permette di superare una visione meramente biologica  della integrità e del benessere del soggetto e di guardare alla  pienezza della sua realizzazione umana.  

 

  Una definizione, però, che presenta anche degli aspetti fortemente problematici. Perché, se la salute coincide col benessere complessivo del singolo, è chiaro che l’oggettività delle valutazioni sulla gravità dei disturbi da curare lascia il posto – almeno in una certa misura – , a opzioni del tutto soggettive: essere grassi, per esempio, o avere il seno piccolo o il naso storto, o non avere figli,  possono  compromettere il benessere psicologico di qualcuno più che un’ernia o un’appendicite. A questo punto tutti gli aspetti della vita  diventano di competenza della medicina. Ma il rischio è che – eliminato il punto di riferimento oggettivo costituito dalla malattia – si entri una logica di totale relativismo che,  ai fini dell’equità nella distribuzione delle risorse, può rendere estremamente  difficile stabilire una gerarchia di  priorità. E che, alla fine, nella società capitalistica, a fare la differenza decisiva sia la disponibilità di risorse da parte di chi chiede certe “cure” e ha i soldi per domandarle sul mercato.

 

  E’ per questo che nelle società opulente si moltiplicano gli studi dei dietologi, quelli degli psicologi, gli specialisti di chirurgia estetica, le cliniche per la fecondazione assistita, mentre contemporaneamente, come abbiamo appena visto, ci sono Paesi del mondo dove non vengono approntate nemmeno le cure e le attrezzature necessarie per combattere le più gravi malattie.

 

   Ma c’è un altro aspetto della medicalizzazione della nostra società che non va trascurato. Ed è la crescente tendenza a praticare un «accanimento diagnostico» che mira a scoprire patologie anche là dove esse non ci sono. Inutile dire che anche questo meccanismo si collega alla logica del mercato capitalistico, in cui non si esita a “creare” i bisogni per poterne garantire, a pagamento la soddisfazione. In questo caso, a volte (non sempre, naturalmente) il bisogno che si crea è quello di cure che non sarebbero affatto necessarie, ma che lo diventano perché  qualcuno riesce a convincere qualcun altro di averne bisogno.

 

   Si riesce, allora, a “vendere malattie” a persone sane, enfatizzando i pericoli di improvvise epidemie che richiedono quantità enormi di vaccini e particolari precauzioni (salvo, poi, a “passare di moda”), oppure indicendo campagne contro questo o quel pericolo alla salute finora sottovalutato, oppure abbassando la soglia della “normalità”, oppure ancora drammatizzando, con la scusa dell’ “informazione”, i pericoli a cui tutti gli organismi sono ovviamente esposti. Su una rivista americana, qualche anno fa, la pubblicità di un prodotto medico mostrava una bella ragazza in costume con sotto la scritta: «Se hai la pelle, sei a rischio di melanoma».   

 

  I confini tra salute e malattia sono certamente difficili da definire, ma la tendenza dominante è a spostarli continuamente a vantaggio della seconda, col risultato di trasformare in “malati” individui che pochi anni prima sarebbero stati considerati del tutto sani.  E a tutto vantaggio delle grandi multinazionali farmaceutiche.

 

   Di fronte a queste malattie immaginarie acquista la sua spaventosa drammaticità il destino di migliaia di persone che ogni giorno, in altre arre del pianeta, muoiono perché non hanno la possibilità materiale di curare le loro, fin troppo reali. E viene da chiedersi se non siamo anche noi, in qualche modo, vittime dell’illusione ottica che produce questa assurda situazione. 

 

 

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