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Dio non è dei morti, ma dei viventi

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Introduzione alla Lectio Divina per domenica 6 novembre 2016 (XXXII del Tempo Ordinario)
su Lc 20, 27-38

 

 

lectio02.11.16

 

 

di Onorina Spera

 

[27] Gli si avvicinarono alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: [28] «Maestro, Mosè ci ha prescritto: se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello[29] C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. [30] Allora la prese il secondo [31] e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. [32] Da ultimo morì anche la donna. [33] La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». [34] Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; [35] ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: [36] infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. [37] Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe[38] Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 

 

Al termine del suo viaggio Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme. Qui, in azione contro Gesù si muovono, oltre agli scribi e ai farisei, anche i sadducei, esponenti della ricca aristocrazia di Gerusalemme, con funzioni sacerdotali di rilievo. Il loro nome, infatti, risaliva a Sadok, sommo sacerdote al tempo di Salomone. Caratterizzati da un rigido conservatorismo, rifiutavano ogni tradizione orale e si attenevano strettamente alla Legge di Mosè, contenuta nel Pentateuco.

 

 

Nel brano in questione “alcuni sadducei” propongono a Gesù un caso ipotetico, una storia inventata nelle scuole rabbiniche per mettere in ridicolo Gesù e negare la fede nella risurrezione, ritenuta una superstizione popolare estranea alle Scritture. Se una donna, conformemente alla legge del levirato (Dt 25, 5-10), ha avuto sette mariti, di chi sarà moglie nella risurrezione? Il quesito rientrava in quella casistica su cui si svolgevano frequenti e infervorate discussioni nell’ambito rabbinico accademico. Il levirato era una prassi giuridica dell’antichità ebraica e di altri popoli, secondo la quale se un uomo sposato decedeva senza figli, il fratello più giovane ne doveva sposare la vedova per assicurare una discendenza al defunto: il nome del morto e la sua eredità sarebbero stati assegnati al primogenito di questa nuova unione. Il paradosso fittizio avrebbe costretto Gesù a schierarsi con loro contro i farisei – l’altra corrente giudaica avversaria – negando la risurrezione che questi ultimi sostenevano come dottrina di fede.

 

 

La risposta di Gesù, spostandosi su un altro piano, apre uno squarcio non solo su ciò che ci attende dopo la morte, ma anche sull’orizzonte entro cui si svolge la nostra vita: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”.

 

 

Riprendendo la questione che sta al cuore della legge del levirato, Gesù relativizza la visione che esaltava la discendenza quale unica espressione di fecondità biologica e valorizza una fecondità più profonda di vita che proviene come dono da Dio: il Dio dell’alleanza che lega a sé l’umanità e genera ‘figli della risurrezione’. È una fecondità che apre a rapporti nuovi in cui al centro sta la fecondità dell’amore che rimane per sempre e supera i confini della morte. Aprirsi al Dio dei viventi è riporre la fiducia che l’amore è più forte della morte ed apre una fecondità di vita impensabile ed inesauribile.

 

 

Il nome di Dio rivelato a Mose al roveto ardente è il nome di un Dio dei viventi: ‘Io sono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe’ (Es 3,6). E’ il Dio che comunica la sua stessa vita e invita tutti gli uomini alla comunione con Lui, perché desidera che noi tutti beneficiamo con lui della pienezza della vita nell’immortalità. Quanto mai vere risuonano le parole di Dostoevskij “Se esiste un Dio, io sono immortale”! Si tratta di un nuovo ordine di rapporti, di una nuova creazione, di un orizzonte nel quale i vincoli parentali e sociali sono trasfigurati.

 

 

Come la vita di un fiume, quando si riversa nel mare, non finisce, ma si trasforma; così è dell’esistenza di ogni uomo. Nel momento della morte, la vita non è tolta ma trasformata. Non è la fine ma il compimento, il raggiungimento del fine, il coronamento dell’esistenza perché riversato nella grandezza e nella santità di Dio, dove tutto trova accoglienza sazietà e unità.

 


 

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