Non credo sia compito di un sito della diocesi prendere posizione sul sì o il no al referendum del prossimo 4 dicembre. Abbiamo cercato, in questa sede, di dare voce alle ragioni dell’una e dell’altra parte, lasciando aperto lo spazio a chiunque volesse intervenire. Però alcune riflessioni sul contesto in cui questa consultazione si svolge sento il bisogno di farle.
La prima è sullo slittamento sistematico che ha trasformato un problema di per sé di ordine squisitamente giuridico-istituzionale, qual è la riforma della Costituzione, in una bagarre politico-partitica. Dicono bene, da questo punto di vista, coloro che, a sostegno del no, invocano la differenza tra la nostra classe politica e quella che, nel biennio 1946-1948, elaborò la nostra Carta costituzionale. Solo che forse non si rendono conto che questo severo, ma pertinente, giudizio si può applicare non soltanto a chi la riforma la sostiene, ma anche a chi la respinge. Perché né gli uni né gli altri possiedono ciò che gli uomini che hanno gettato le basi della nostra Repubblica – di destra o di sinistra che fossero – avevano: il senso dello Stato.
Fu perché aveva il senso dello Stato che il segretario della DC, De Gasperi, nei primi mesi di vita della Costituente, respinse il diktat di Pio XII che gli imponeva di rompere l’alleanza di governo con i comunisti e i socialisti, in un momento in cui questa scelta avrebbe significato anteporre il punto di vista della Chiesa alle esigenze oggettive del Paese appena uscito dalla guerra e bisognoso di una fase di coesione politica, proprio in vista della elaborazione della Costituzione.
Fu perché aveva il senso dello Stato che, pochi mesi dopo, il segretario del PC, Togliatti, decise, sorprendentemente, di far votare ai suoi l’art.7, che recepiva i Patti Lateranensi – conclusi tra la Chiesa e Mussolini – nella nuova Costituzione repubblicana, convinto che un irrigidimento sulle posizioni ideologiche del marxismo potesse portare solo allo scontro frontale con i cattolici e allo sfascio dell’Italia.
Per quante riserve si possano avanzare su questi e sugli altri uomini che hanno dato vita alla Prima Repubblica, non si può negare che fossero delle personalità. Avevano delle convinzioni – giuste o sbagliate che fossero – e la cultura necessaria per sostenerle coerentemente con le parole e con i fatti. Proprio per questo, forse, erano in grado, in alcune situazioni cruciali, di superare miopi logiche di parte e di determinare confluenze sull’unico bene comune della nazione.
Se si paragonano a loro quelli che sono venuti dopo, i fondatori e i protagonisti della cosiddetta Seconda Repubblica, non possono non tornare in mente le orgogliose parole che Tomasi di Lampedusa mette in bocca al principe di Salina, al momento di accomiatarsi dall’inviato del re del Piemonte, Chevalley: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene».
Parlo qui, naturalmente, non delle persone, che non oserei mai qualificare così severamente (dice il Vangelo: «Non giudicate»), ma dei “personaggi” – ruoli, maschere – che esse hanno assunto sulla scena pubblica, e che le identificano mentre recitano la loro parte. Di questi sì, credo non solo diritto, ma dovere di qualunque cittadino dare un giudizio, senza con questo pretendere di classificare l’essere umano che si nasconde dietro l’immagine offerta agli occhi del mondo. E sappiamo tutti che cosa questi uomini – con le dovute, ma rare eccezioni – hanno fatto dell’Italia negli ultimi venti anni, non solo e non tanto sul piano economico, quanto su quello etico e politico.
Ad essi si deve, adesso, se il referendum sulla riforma costituzionale, da momento di possibile confronto culturale, è scivolato al livello delle fatue diatribe tra interessi particolari e contingenti. È perché non ha il senso dello Stato che un presidente del Consiglio, che pure dichiarava di aspirare a un vero rinnovamento, ha legato fin dall’inizio questa battaglia alla propria persona (meglio, al proprio personaggio), trasformandola in un referendum pro o contro lui stesso. Ed è perché non hanno il senso dello Stato che altri tristi protagonisti della nostra vita pubblica, dopo avere contribuito a varare il testo della riforma e averlo solennemente approvato in sede parlamentare, ora dicono di esso le cose peggiori, col solo possibile motivo della successiva rottura della loro alleanza con Renzi.
Così, è certamente il segno di un pesante decadimento culturale della nostra classe politica il fatto che il testo della riforma sia davvero pieno di oscurità e contraddizioni, come si denuncia da parte dei fautori del no. Ma – a parte il fatto che di queste carenze sono responsabili anche quelli di loro che avevano in un primo momento contribuito a proporlo – , le argomentazioni offerte dai critici sono di tale livello da rendere scoraggiante l’ipotesi che il prevalere della loro linea di “conservazione” li porti (di nuovo) alla ribalta.
Perché, come dicevo all’inizio, in questa campagna dai toni sempre più esasperati, dei contenuti effettivi della riforma sembra non interessare più niente a nessuno. Il vero problema non è più istituzionale, ma di mero potere. Come lo ha posto Renzi fin dal principio e come lo hanno concepito i suoi avversari. Col risultato che, se vincerà il sì, rischiamo davvero di avere un premier troppo “forte”, mai eletto dal popolo, che potrà dire di averne avuto adesso una investitura; se vince il no, bisognerà cominciare a chiedersi quale prospettiva futura comune può offrire al Paese un coacervo di forze politiche il cui unico comun denominatore è l’opposizione a Renzi.
Non voglio chiudere queste amare riflessioni senza indicare, in omaggio al nome di questo sito – «Tuttavia» – , un filo di luce che mi sembra venga da tante realtà non politiche e pure operanti con generosità ed efficacia a livello sociale. E’ ora, per gli uomini e le donne che animano queste realtà, di rendersi conto che non basta il volontariato, non basta il pur ammirevole impegno a favore dei più deboli e poveri: urge oggi il ritorno alla politica. Da troppo tempo l’Italia manca di un’adeguata prospettiva su queste decisivo terreno. Per quanto importante sia la sfera sociale, essa non può determinare le sorti del bene comune di una nazione. È la politica che dà la direzione. Perciò bisogna che, dopo i leoni, dopo le iene, vadano a governare questo Paese persone la cui “maschera” ci ricordi nuovamente il volto umano.
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