Siamo usciti da un referendum vissuto da molti con rabbia. Referendum che ha visto, da un lato, un rinnovato interesse per la politica, dall’altro, reazioni viscerali, schieramenti bipolari, senza nessuna voglia di discutere, di comprendere, di mettere in discussione le proprie scelte. L’Italia si è scoperta divisa, con un gran desiderio non di discutere, non di costruire, ma di protestare. Nonostante il governo Renzi non fosse peggiore di altri governi, mai leader politico è stato così inviso e avversato. Il referendum è stato solo per pochi un referendum sulle modifiche alla Costituzione, per la maggioranza dei cittadini – e per Renzi stesso – è stato un referendum su di lui.
Gli italiani, e i giovani in particolare, hanno approfittato della consultazione referendaria per esprimere una rabbia sociale repressa, legata ad una crisi economica e sociale, che sembra interminabile e che gli esperti giudicano irreversibile: fine dell’epoca del progresso illimitato e del benessere crescente; rabbia acuita dal fatto che la responsabilità della crisi non è facilmente attribuibile a soggetti chiaramente identificabili. Molti sono alla ricerca di un nemico, per scaricare su di lui l’esasperazione di chi vede i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Leggendo i post dei vari schieramenti sul “si” o sul “no” ci si rendeva conto che, più che la voglia di discutere, c’era una gran voglia di gridare e di esprimersi. L’espressione del disagio, vista la sua virulenza, era ed è segnale di un disagio sociale e spirituale più profondo. Molti cittadini hanno accumulato, e scaricato alla prima occasione, un risentimento legato anche alla mancanza di quel riconoscimento che la nostra società concede solo ai ricchi, ai divi, alle persone interessanti, a chi ce l’ha fatta, ai dotati. Sui social si grida il proprio esistere e ci si lancia in performance che attirino l’attenzione. Perché tutto deve essere spettacolo, deve interessare, deve stupire.
Ho l’impressione che per molti non esiste altro modo di interagire verbalmente con altre persone. Lo scambio verbale sui social diventa così una prova personale di significatività: bisogna apparire intelligenti, determinati e senza sfumature, simpatici, ironici, aggressivi, vincenti. La verità non importa o importa meno, perché non c’è verità se non la mia verità, quella che consiste nel mio diritto ad essere conosciuto e riconosciuto.
Oggi si parla molto di “post-verità”, traduzione dell’inglese post-truth. L’uso di questo termine è letteralmente esploso dopo il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump. Gli Oxford Dictionaries l’hanno eletta parola dell’anno 2016 (https://en.oxforddictionaries.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016). “Post-verità” significa che i fatti obiettivi sono meno importanti, nell’orientare il consenso, degli appelli alla emotività. “Votate con la pancia!” esortava qualcuno nell’ultimo referendum. La pancia la sa più lunga dei fatti obiettivi, delle argomentazioni, dei tentativi di trovare nobili compromessi, inevitabili in politica. La post-verità nella sua versione peggiore è “l’arte della bugia”.
Non è un fenomeno nuovo. Ne ha sempre fatto uso la propaganda di regime e quella di alcuni politici. Ne ha fatto uso George Bush per giustificare l’intervento armato nella Guerra del Golfo.
Cosa allora è cambiato ultimamente?
“Le caratteristiche e le dimensioni assunte dal fenomeno ai nostri giorni sono diverse e ci sono alcuni fattori che in particolare devono essere sottolineati, tutti legati alla rete: la globalità, la capillarità, la velocità virale della diffusione delle varie post-verità; e poi la generalità e genericità degli attori che possono alimentarle, spesso con una propaganda nascosta e inaspettata che può provenire da pseudo-istituti di ricerca, da esperti improvvisati.” ( http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/viviamo-nellepoca-post-verita)
Si può arginare l’irresistibile ascesa della post-verità? Si può sperare che le cose vadano diversamente? La parola può di nuovo diventare veicolo di mediazione personale e non solo di autoaffermazione?
Nella lettera ai Filippesi Paolo dà un comando: «politeúeste in modo degno del Vangelo di Cristo» (Fil 1,27). La versione della Cei traduce con: «comportatevi da cittadini degni del vangelo di Cristo». Ma uno dei significati possibili di politeúo è «conversare». La Vulgata traduce politeúeste con conversamini, cioè «abbiate a che fare tra di voi». C’è un felice scambio semantico tra comportarsi da cittadini e conversare, perché attraverso l’azione di conversare si costruisce la comunità civile e la chiesa visibile. L’atto di conversare è tipico di chi riconosce di appartenere ad una stessa comunità.
Se così è, educare alla conversazione, costruire occasioni di conversazione può diventare progetto politico e pastorale. La conversazione è momento indispensabile della costruzione di una comunità.
Nella conversazione sono importanti lo sforzo di produrre argomenti ragionevoli e condivisibili, il considerare l’altro un soggetto amante del vero. Nella filosofia analitica esiste un Principle of Charity che si può tradurre con “principio di benevolenza”. La benevolenza di cui si parla è l’obbligo di interpretare l’altro nella maniera più favorevole a lui, in modo da farne un soggetto razionale, invece di prenderlo in castagna, sofisticando sulle imprecisioni o sulle espressioni mal riuscite, invece di attribuirgli opinioni idiote. Questo presuppone un vero desiderio di comprendere, figlio di un sincero amore della verità di cui l’altro può essere portatore, nonostante la pensi in modo diverso da me.
La conversazione, a differenza dei momenti di istruzione, di formazione, di insegnamento formale è paritaria, simmetrica, non è direttiva.
Una comunità politica nasce anche attorno ai tentativi di conversazione. Nella conversazione si mettono a punto linguaggi comuni, si condividono significati, si stabiliscono priorità, si formano decisioni di collaborazioni, di compromessi realistici, si resiste ai fondamentalismi, si impara a mettere insieme la pancia con la neocorteccia.
Lo stile della conversazione è decisivo per costruire quegli orizzonti di senso collettivo che, a parere dell’ultimo rapporto CENSIS, sono saltati. E’ in crisi la funzione delle istituzioni come cerniera tra mondo politico e corpo sociale; non esistono luoghi in cui venga costruito un sentire sociale comune (http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=121086).
Da più parti si chiede un ritorno alla politica, perché si pensa che mai gli italiani sono stati così mal rappresentati e i politici così lontani, attenti a difendere interessi privati, più che beni comuni. Ma come tornare alla politica senza riapprendere l’arte della conversazione? Conversare è proprio una virtù politica. La piazza della città era il luogo dove i cittadini imparavano a conoscere le opinioni altrui, imparavano ad apprezzarle o a criticarle, le facevano proprie a le avversavano, col pudore di addurre argomenti potenzialmente condivisibili. L’irrisione delle opinioni altrui non costruisce la città! La piazza mediatica sembra più adatta a diventare un luogo di conflitto.
Dopo le proposte del garante anti trust G.Pitruzzella, si è acceso il dibattito circa le bufale sui media. Chi dovrebbe controllarle ed, eventualmente, censurarle? Chi decide cosa è una bufala e cosa non lo è?
Se veramente viviamo in un’epoca di post-verità, i fatti e gli argomenti non contano nulla. Non vogliamo convincere, vogliamo solo vincere con la battuta sferzante, con la irrisione, con l’insulto, con l’invenzione di fatti che parlino alle viscere più che alla mente; mente che si suppone ormai perduta, condizionata, irredimibile. Credo che, se questo è lo stile diffuso di interazione verbale, le censure servano e poco e finiscano per essere sempre di parte. E’ solo la cultura degli utenti, la sensibilità nei confronti del vero, la ricerca personale, lo stile acquisito e diffuso della conversazione che possono fare da argine.
Se ci chiediamo a chi spetti creare luoghi di mediazione sociale, possiamo rispondere in modo molto articolato. Ma c’è una evidenza. Ci sono ancora in Italia alcune istituzioni diffuse e pervasive: la famiglia, la scuola, le chiese locali. Ad esempio, in questo momento critico per le migrazioni di milioni di persone verso l’Occidente ricco, la Chiesa italiana, tramite le Caritas, sta cercando di far nascere un sentire includente, di mediare tra la pancia dei cittadini e la ragionevolezza politica.
Questo è solo un esempio. Più in generale, si tratta di formare la figura del cittadino, di collaborare alla crescita di persone capaci di interagire dialetticamente nella difficile ricerca di valori condivisi e soluzioni gestibili, di fronte a problemi sempre nuovi.
In questa opera di formazione le parrocchie possono svolgere un ruolo importante, se solo prendessero sul serio alcune indicazioni di papa Francesco nel quarto capitolo della Evangelii Gaudium: formare cittadini fa parte della evangelizzazione (n.178), “il tempo è superiore allo spazio” (n.222-225).
Questa ultima indicazione invita ad avviare processi virtuosi, anziché solo badare a risultati immediati.
Ci sono, e ci devono essere, a scuola, in parrocchia, in famiglia momenti in cui bambini, ragazzi, giovani “pendano dalle labbra” di qualche adulto, o in cui gli adulti progettino, discutano in modo funzionale ad un obiettivo da raggiungere, in cui sono soggetti attivi e passivi di insegnamento e catechesi. Ma questo non basta!
Ci devono anche essere momenti in cui si parla e si ascolta per costruire un sentire comune, idee condivise, un’opinione pubblica, avendo messo tra parentesi carismi personali, superiorità di qualunque tipo, in cui si valorizza l’altro anche quando si esprime in modo inappropriato, momenti nei quali quello che conta è la bontà degli argomenti addotti per sostenere un’opinione, più che la performance dei linguisticamente dotati. Momenti in cui si forma l’orizzonte condiviso di idee e valori di una famiglia, di una classe di alunni, dei fedeli di una parrocchia, degli abitanti di una città. Oltretutto momenti di conversazione potrebbero aiutare a formulare le domande giuste, invece di sovrapporre risposte a domande che ancora non ci sono.
Purtroppo non c’è tempo per tutto questo! L’ansia da prestazione, la preoccupazione per i risultati, il desiderio di esprimersi, che supera quello di comunicare, rendono i nostri dialoghi direttivi, frettolosi, spezzati, a volte arroganti ….
Da decenni si parla di rinnovamento delle parrocchie. Ma chi vi mette mano? Nelle migliori parrocchie fervono attività di vario tipo. Solo in qualche caso ho sentito parlare di parrocchie nelle quali si voglia, col tempo e con pazienza, costruire un sentire comune, con l’apporto di tutti, attraverso la pratica non episodica della conversazione; attraverso un aver a che fare l’uno con l’altro, in modo non direttivo, non asimmetrico, non attraverso una cattedra o un pulpito. Non si tratta di sconvolgere la vita delle parrocchie, ma di introdurre piccoli semi che facciano il loro corso, di dar fiducia al tempo.
Sarebbe questo un modo di collaborare a costruire una chiesa sinodale e una società civile fatta di persone in relazione, che sentano la reciproca dipendenza non come semplice dato di fatto, ma come scelta consapevole e fattiva, come auspicava qualche decennio addietro san Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis (n.38).
Qualche decennio fa nella diocesi di Palermo furono lanciate le missioni popolari. Oggi bisognerebbe avere il coraggio di lanciare una nuova missione civile. Non è una provocazione, è una considerazione che deriva dalla consapevolezza che non si può rispondere alla inondazione della post-verità e della corruzione della politica solo con riunioni, incontri e seminari, che riguardano pochi intellettuali e neanche solo con le scuole di politica, che rimangono elitarie.
Il 28 gennaio prossimo si è autoconvocato a Roma un movimento che vuole ritessere la tela stracciata della relazione tra politica e società civile. Tra i promotori c’è anche il prof. G. Savagnone, direttore di Tuttavia, sito dell’Ufficio della Pastorale della Cultura e dell’Educazione di Palermo. Nel documento, diffuso come base per valori condivisi, priorità e strategie, si indica nella “costruzione di un sistema di relazioni personali articolato sul territorio” un momento fondamentale della formazione di una nuova consapevolezza politica.
Cosa di più articolato delle parrocchie? La decisione coraggiosa di assumere su di sé la responsabilità evangelica di una formazione capillare e integrata alle virtù politiche, da parte delle comunità parrocchiali diffuse sul territorio, potrebbe essere una risposta, nei tempi lunghi ma efficace, alla crisi attuale della società italiana.
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