Si sono chiuse le iscrizioni scolastiche per il prossimo anno e – a sorpresa – la percentuale degli studenti di terza media che ha scelto il liceo è significativamente aumentata, passando dal 53,1% al 54,6%.
Tra il licei, il più richiesto è quello scientifico: 25,1%. Sui giornali questo successo viene attributo alla crescita dell’opzione che prevede la sostituzione dello studio dell’informatica a quello del latino; ma quando si vanno a vedere i numeri, si scopre che si tratta di un aumento molto limitato – dal 7,6% di quest’anno al 7,8% del prossimo – , che non incide in modo decisivo sull’impianto complessivo di questo indirizzo.
Registra una considerevole ripresa, dopo anni di crisi, il liceo classico, che passa dal 6,1% al 6,6%. Un progresso che conferma e accentua quello realizzato già l’anno scorso rispetto al 6% di due anni fa. Conservano le posizioni o vedono leggeri aumenti gli altri licei: quello linguistico e quello musicale, che si mantengono rispettivamente al 9,2% e allo 0,9%; quello artistico, che passa dal 4,1% al 4,2%; quello delle scienze umane, che cresce dal 7,6% al 7,9%.
Diminuiscono leggermente, invece, le richieste di iscrizione agli istituti tecnici (dal 30,4% al 30,3%), e in modo assai più consistente quelle ai professionali (dal 16,5% al 15,1%).
Sono dati che possono sorprendere. Dicono chiaramente che il nostro Paese resta tenacemente legato a un tipo di studi che privilegia ancora una formazione complessiva della personalità, rispetto a quelli che puntano più immediatamente sulla trasmissione di competenze e abilità operative. Molti vedranno in questo un fenomeno di retroguardia, un segnale tra gli altri del nostro ritardo culturale, in un contesto mondiale che vede il trionfo delle logiche produttivistiche e che ben poca importanza sembrerebbe attribuire alle conoscenze non immediatamente spendibili. Al polo opposto, ci sarà chi lo considererà un prezzo che vale la pena pagare per salvarci dal dominio di una civiltà fondata sull’efficienza e sull’utilitarismo.
Il difetto di entrambe queste letture è il presupposto, che hanno in comune, secondo cui gli studi liceali costituiscono un retaggio del passato e non consentono di affrontare adeguatamente le sfide dell’economia contemporanea. È questo presupposto a essere sbagliato. In realtà, la preferenza degli italiani per i licei è probabilmente il frutto di una percezione, più o meno consapevole, del fatto che ormai le esigenze del mercato del lavoro non passano più attraverso una specializzazione professionalizzante, ma chiedono una crescita globale della persona, che gli studi liceali tutto sommato garantiscono meglio degli altri.
È questa la grande innovazione che si è determinata col passaggio dalla società industriale a quella post-industriale. Nella prima le protagoniste dell’attività produttiva erano le macchine. Gli esseri umani erano al loro servizio come “inservienti” e dovevano specializzarsi, conformandosi a un modello di lavoro puramente meccanico, trasformandosi essi stessi in macchine. Charlie Chaplin ha genialmente espresso questa situazione nel suo capolavoro Tempi moderni.
Questa concezione del lavoro umano è stata scalzata negli ultimi decenni – non da una filosofia o da una fede religiosa, ma dall’evoluzione della stessa economia. In negativo, perché la durata della vita delle macchine e quella della vita lavorativa di un operaio, che nella società industriale grossomodo corrispondevano (una quarantina d’anni), a causa del sempre più accelerato progresso delle tecnologie si è drasticamente sfasato. Ormai un macchinario diventa obsoleto nel giro di una decina d’anni e, se un lavoratore si era specializzato nell’usarlo, che cosa gli si farà fare nei trent’anni di vita lavorativa che gli restano? In positivo, perché ormai, con l’avvento dell’informatica, contano molto di più i programmi – il soft – che le apparecchiature – l’hard. L’anima della produzione è diventata l’informazione, che è una risorsa immateriale, legata alla conoscenza e alla inventiva di un soggetto.
Questa svolta strutturale ha fatto emergere la vera natura del lavoro umano, che non è, come quello di cui parlano i manuali di fisica (ed è proprio delle macchine), un puro trasferimento di energia cinetica, bensì l’interpretazione creativa grazie a cui qualcuno, in base alle proprie competenze, riesce a far emergere da un lato le risorse, dall’altro i bisogni, mettendoli in relazione tra di loro e facendoli esistere proprio per questa relazione. Il beduino che trecento anni fa vedeva sgorgare dal terreno del suo arido campicello un liquido nero, oleoso, maleodorante, che invadeva le sue magre colture, si disperava per la sua disgrazia. Il petrolio, allora, non era ancora una risorsa. Reciprocamente, nessuno, a quel tempo, sentiva il bisogno di benzina. Risorsa e bisogno sono nati dal loro incontro. Ma per esso, sono stati necessari degli uomini che hanno saputo vedere, al di là dell’esistente, ciò che ancora non esisteva. Questo significa lavorare.
Non è solo un caso eccezionale. Ogni progettazione si spinge verso un futuro che ancora non è, per inventarlo. E spesso un funzionario intelligente si distingue dall’ottuso burocrate per la propria capacità di applicare delle norme e delle procedure, nate in certe circostanze, a situazioni nuove, individuando dei possibili nessi prima mai immaginati.
Questo però significa che il lavoro deve coinvolgere tutte le risorse della personalità del lavoratore, si tratti di un fisico nucleare o di un cuoco, di un medico o di un giardiniere. Ecco perché, paradossalmente, un tipo di studi di ampio respiro, che non specializzano, ma aprono la mente e stimolano la fantasia, come quelli liceali, possono rivelarsi più rispondenti alle attuali esigenze, rispetto ad altri apparentemente di più immediata spendibilità sul piano lavorativo.
A patto, naturalmente, che questi studi siano davvero quello che devono essere. A questo proposito, il recentissimo documento di 600 docenti universitari, che denunziano la scarsa preparazione dei ragazzi usciti dalla scuola secondaria superiore, è un ulteriore campanello d’allarme sull’andamento del nostro sistema scolastico. Da troppo tempo esso è stato – e continua ad essere! – relegato nell’ambito degli investimenti “inutili” (abbiamo appena visto quanto questa idea sia infondata). Da troppo tempo la figura dell’insegnante è stata – e continua ad essere! – economicamente e socialmente svalutata, scoraggiando l’accesso delle migliori intelligenze alla funzione docente. Da troppo tempo si procede con interventi massificanti, che ignorano la dignità professionale e il merito (con la complicità, purtroppo, dei sindacati). Non bastano il coraggio e la competenza con cui un numero considerevole di professori si sforza di sopperire a queste carenze strutturali. Guai a una scuola che ha bisogno di eroi o di santi! Le famiglie hanno visto bene: il nostro “vecchio” liceo è una risorsa importante per il futuro del nostro Paese. Sarebbe ora che anche lo Stato italiano se ne rendesse conto.
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