Sul suicidio di Dj Fabo si è scritto molto “a caldo” (l’ho fatto anch’io in un editoriale su «Avvenire» del 28 febbraio), ma forse proprio questa sovrabbondanza di reazioni immediate rende utile una pausa di riflessione più pacata. Essa ci consente, infatti, di distinguere, nella questione, livelli diversi che spesso, nella sovrabbondante produzione giornalistica di questi giorni, sono stati sovrapposti e confusi.
Il primo è quello squisitamente umano. Il dramma di un uomo di 39 anni cieco e paralizzato, che percepisce la propria condizione, per usare le sue parole, come «un inferno di dolore», non si può ridurre a un “caso” etico o giuridico. Di fronte ad esso ogni giudizio – anzi ogni discorso – suona fuori luogo. Il solo atteggiamento adeguato è il silenzio. Nessuno ha il diritto di condannare questo fratello che ha molto sofferto. Chi è credente, può pregare per lui. Chi non lo è, rinunzierà comunque a ingabbiare il suo gesto in una categoria precostituita.
Forse proprio per questo – passo al secondo livello, che concerne l’aspetto culturale della vicenda – mi ha disturbato vedere trasformare un’angosciosa esperienza personale in una bandiera ideologica. La tragica fine di Dj Fabo è stata annunciata, accompagnata e seguita da proclami che hanno cercato, con successo, di usarla per colpire emotivamente l’opinione pubblica. Si dirà che lo si è fatto per promuovere una giusta causa. Sospendendo per ora la valutazione sul giusto e sull’ingiusto, mi sembra che ridurre la morte di un uomo malato a uno spettacolo – sullo stesso piano dei tanti che il pubblico avidamente consuma, per poi dimenticarli – possa servire a far vincere una battaglia politico-giuridica, ma è comunque una sconfitta dal punto di vista culturale, perché banalizza ciò che si pretende di voler salvaguardare, la dignità e il mistero dell’essere umano. In quest’ottica, mi pongo tra coloro che, pur contrari all’aborto, si rifiutano di combatterlo ricorrendo a filmati o fotografie raccapriccianti.
Ma c’è un terzo livello che ci porta più vicini al cuore della questione, ed è quello, per così dire, filosofico. Si è sentito ripetere in continuazione, in questi giorni, che va riconosciuto a tutti il diritto di decidere della propria vita senza doverne rendere conto a nessuno, meno che mai alla comunità civile. In questo modo, però, la profonda, sofferta comprensione per il drammatico gesto di Dj Fabo viene incanalata in un preciso alveo di pensiero, che da più di trecento anni domina la civiltà occidentale e che definisce l’essere umano nella logica di un “individualismo possessivo”.
Secondo questa logica, la categoria fondamentale che definisce la persona non è, come pensavano il mondo classico e quello medievale, l’essere, ma l’avere. La proprietà privata, assurta a valore centrale con l’avvento dell’economia pre-capitalistica e capitalistica, è stata utilizzata come chiave di lettura dell’identità stessa dell’essere umano: ciò che ci definisce è l’essere proprietari di noi stessi, del nostro corpo, delle nostre facoltà, degli oggetti che produciamo.
E come la proprietà privata è tale perché esclude gli altri dalla gestione del bene posseduto – cosicché si può farne quello che si vuole senza risponderne a nessuno -, si può fare anche di se stessi, in base a questa equiparazione, ciò che si ritiene, senza limiti che non siano quelli dell’analoga proprietà altrui. «L’utero è mio e ne faccio quello che voglio», abbiamo sentito scandire nei cortei qualche decennio fa. Su questa base, recentemente il noto bioeticista inglese John Harris ha proposto di legalizzare la vendita di organi, anche per regolamentare (la motivazione delle richieste di liberalizzazione è sempre la stessa) il fiorente traffico illegale già in corso. Del resto già, in questa stessa prospettiva, nel mercato capitalistico il lavoro dell’operaio era stato ridotto a una merce come un’altra.
È appena il caso di dire che questa visione misconosce il mistero della persona, in ciò che ha di più profondo e che sfugge anche alla presa della sua intelligenza e della sua volontà, per esaltarne in modo unilaterale la libertà di disporre di sé. In questa logica, oggi, c’è chi afferma (e sono molti) che, con le manipolazioni genetiche, gli esseri umani hanno il diritto di modificare il proprio corpo, come un qualunque oggetto, al punto da renderlo del tutto diverso da ciò che esso attualmente è.
Il significato dell’individualismo possessivo, però, ha la sua più evidente manifestazione nelle sue ricadute sul rapporto con gli altri. In base ad esso, nessuno può interferire nelle scelte del singolo, finché questi si mantiene nell’ambito della sua vita privata. «La libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro», è la formula magica. Ciò che si fa nella propria sfera non riguarda nessun altro, meno che mai la società politica e lo Stato.
Ma è veramente così? Il medico che non si aggiorna, l’insegnante demotivato, i genitori che perdono il senso del loro matrimonio, non stanno, con le loro scelte rigorosamente “private”, influenzando in modo decisivo la vita di altri – pazienti, alunni, figli? Certo, non si può pretendere che lo Stato si intrometta stabilendo quante ore un medico deve dedicare a studiare gli ultimi ritrovati, o per costringere un insegnante o un genitore a recuperare il loro senso di responsabilità verso i più giovani. Ma a livello etico non si può invocare la libertà dell’individuo nella sua sfera privata senza precisare che la libertà è sempre anche responsabilità.
E questo vale anche quando si dispone della propria vita. Il suicidio di una persona ha una ricaduta tremenda su coloro che gli sono più vicini: il padre, la madre, i fratelli, la moglie, gli amici, l’intera società. Nella logica del mercato, dove valgono solo i legami contrattuali, ognuno è tenuto solo al rispetto di questi ultimi. In questa logica, Engelhardt ha potuto sostenere che non è lecito impedire a qualcuno di uccidersi, «a meno che il suicidio non venga impedito al fine di permettere l’adempimento di doveri preesistenti (p. es., pagare il conto della propria VISA, correggere i lavori dei propri studenti, istituire un fondo per i mantenimento dei propri figli)». Personalmente penso, invece, che sia giusto lottare per aiutare un altro essere umano a riscoprire il valore della vita, anche quando lui non lo vede più. Perché «nessun uomo è un’isola», e la morte di un altro mi diminuisce.
Resta l’ultimo livello, che è quello giuridico. Non sono un giurista e non intendo indicare soluzioni precise su questo terreno. Solo alcune considerazioni di fondo. Non penso che lo Stato possa imporre con la forza il rispetto pieno del grande principio della libertà come responsabilità. La sfera privata dev’essere soggetta innanzi tutto all’etica e bisogna andare piano nel regolamentarla con norme giuridiche. Però non si può neppure pretendere che la comunità civile favorisca con un’apposita legislazione comportamenti personali ispirati a un principio etico opposto – la libertà assoluta, nel privato, svincolata dalla responsabilità. Davanti alla vita e alla morte lo Stato non può essere neutrale, rimettendosi puramente alle scelte dei singoli. Pur tenendone conto, farà il possibile per favorire quelle che vanno verso la vita e che ricadono positivamente sul bene comune. Ciò non impedirà i suicidi. Ma forse contribuirà ad educare la società, e in particolare le nuove generazioni, a considerare la vita così preziosa da restarle fedeli, malgrado tutto, anche portandone la fatica quando essa è segnata dalla tragedia della sofferenza.
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