«Noi insieme appassionatamente». È l’ultimo post pubblicato su facebook da Patrizia Formica, poco prima che il compagno, Salvatore Pirronello, la uccidesse con quattro coltellate. Si erano conosciuti, lui 52 anni, lei 47, l’estate scorsa. Entrambi avevano alle spalle un fallimento matrimoniale. Il nuovo rapporto era stato per loro un raggio di speranza. Per lei questa speranza si era via via consolidata in una raggiunta felicità, di cui sembrava non dubitare. Quella domenica, al mattino, aveva scritto: «Buongiorno a tutti. Fuori piove, e chi se ne frega, io ho il sole dentro, le persone che amo sono accanto a me può anche arrivare il diluvio io mi sento al sicuro. Buona domenica a tutti». Per lui, invece, si era spenta troppo presto, lasciando dietro di sé una crescente insofferenza nei confronti di un legame percepito come soffocante. Così, quella stessa notte, a un certo punto questa smania è esplosa, si è alzato dal letto, ha preso un coltello da cucina e ha cominciato a colpire la compagna mentre era immersa nel sonno, forse sorridendo alle immagini della sua felicità. Lei ha cercato di difendersi, ma i colpi erano mortali. Lui allora si è vestito, è uscito di casa ed è andato dai carabinieri a costituirsi.
Nelle cronache dei giornali è stato l’ennesimo caso di femminicidio. Un’altra occasione per denunciare, giustamente, i ritardi di una legislazione che non punisce abbastanza severamente le violenze contro le donne e per sollecitare la rapida approvazione di un disegno di legge, relativo questo problema.
Guardando i servizi dei telegiornali e dei quotidiani mi sono trovato, ovviamente, d’accordo su tutto. Eppure ho avuto la sensazione che, in questo quadro ineccepibile, delineato nei termini del politically correct, mancasse qualcosa. Non perché veniva escluso, ma perché ormai la logica della comunicazione mediatica ci abitua a incuriosirci, a catalogare, a denunziare, a indignarci, più che a fermarci per condividere e riflettere.
Ho cercato, per un momento, di andare oltre la notizia e di fare spazio dentro di me alla realtà di ciò che era accaduto. Ho provato a lasciarmi toccare dalla tragedia di queste vite distrutte e ho sentito una gran pena. Pena per i poveri sogni di una donna, che la vita non aveva certamente premiato, e che era convinta di aver finalmente trovato l’amore. «Può anche arrivare il diluvio io mi sento al sicuro», aveva confidato a facebook poche ora prima di andare a coricarsi con il suo assassino. Come siamo capaci illuderci, noi esseri umani!
Pena anche – senza sminuirne in nulla le tremende responsabilità – per il “mostro”, per la sua follia che lo ha spinto a un gesto assurdo, senza alcuna possibile giustificazione, alla cui conseguenze non ha neppure tentato di sfuggire. Non era un killer. Neppure – sembrerebbe – un malato di mente. Solo una persona normale in cui si rivela, improvvisamente, l’abisso che c’è dentro le persone normali. Mentre cercavo di immaginarmi il suo stato d’animo, quando si è trovato davanti alla persona che lo aveva amato tanto e che lui aveva ucciso – ma anche alle macerie della sua vita -, mi è tornato in mente il titolo di un resoconto di guerra di Oriana Fallaci: Niente e così sia.
Quello che i mezzi comunicazione non possono esprimere, in tutta la sua terribile forza, è il mistero del male – nel suo inestricabile intreccio di dolore e di colpa – di cui fanno il quotidiano resoconto. Non perché non siano veritieri o non diano un’informazione completa. Anzi, paradossalmente, è proprio la veridicità e la completezza dell’informazione a rendere inevitabile la sua tendenza a trasformare la vita reale in asettica notizia, neutralizzandone la carica dirompente. È proprio in una società come quella attuale – in cui, a differenza che nel passato, siamo messi davanti, in tempo reale e in diretta, a tutte le violenze e a tutti i drammi che si verificano sul nostro pianeta – che l’informazione rischia di anestetizzare in noi la percezione del male.
Emblematica è quella che si svolge, in tv e sul computer o sullo smartphone, attraverso lo schermo. “Schermo”, in italiano, significa due cose: la superficie su cui si delineano delle immagini, e la difesa, la barriera che si frappone a una minaccia (si dice, per esempio, che ci “fa schermo” con le mani davanti a un aggressore). Lo schermo dei nostri strumenti di comunicazione assolve entrambe le funzioni. Se una sera, tornando a casa, trovassimo nel nostro salotto dei bambini uccisi dai gas (come è avvenuto in Siria in questi giorni), ne avremmo uno shock che non dimenticheremmo per tutta la vita. Se la stessa scena – che sappiamo comunque reale – si svolge sullo schermo del nostro televisore, siamo in grado di continuare tranquillamente la nostra cena, magari lamentandoci perché nella minestra manca il sale. Lo schermo ci permette di essere presenti a tutto, senza impazzire. Sulla stessa linea, peraltro, è anche l’informazione su carta, che sapientemente alterna le notizie più tremende con quelle sportive e con il gossip, sulla linea di un sopportabile giornalismo-spettacolo.
Alla fine, sappiamo molto di più, ma soffriamo molto di meno. La stessa velocità con cui le notizie passano e si susseguono ci aiuta a relativizzarle e ad “alleggerirle”. Il dramma della povera Patrizia e del “mostro” Salvatore fra qualche settimana non sarà più neppure ricordato. L’opinione pubblica segue l’agenda dei mass media, e questi cambiano continuamente argomento per tenere viva l’attenzione. Così, come ha detto un antico filosofo, tutto scorre, come un fiume le cui acque, mentre le guardiamo, non sono già più le stesse.
Qualcuno obietterà che l’importante non è fare l’esperienza profonda del male del mondo, ma combatterlo. A che serve che ne siamo feriti? E non c’è il rischio che la riflessione diventi un ostacolo all’azione concreta? Sono osservazioni sensate. Ma mi chiedo se alla fine non rischi di nascere un tipo di essere umano capace, forse, di migliorare il mondo, ma che vive alla superficie di se stesso. Perché allora anche i motivi per questa battaglia svanirebbero ai suoi stessi occhi – come già purtroppo accade in molti – e questo sì realizzerebbe la terribile formula del titolo della Fallaci: Niente e così sia.
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