Dal 23 dicembre 2016 tutte le amministrazioni pubbliche centrali e locali (comprese società controllate e partecipate, enti, aziende, fondazioni, ecc.), si sarebbero dovute uniformare, senza ulteriori rinvii, alle nuove regole sulla trasparenza contenute nel decreto Foia (Freedom of information act). Lo hanno fatto? Si, però, come avviene sempre, all’italiana: “teoricamente” ma non concretamente. Basta sentire gli umori dell’opinione pubblica per comprendere che ancora le cose, sul punto, non vanno per il verso giusto. Ritardi, disorganizzazione, scarsa professionalità, elusione dei diritti dell’utenza, sopravvivono ad ogni benefico “urto” normativo e all’esigenza di modernizzare davvero l’apparato pubblico.
Nondimeno la legge è chiara e non si presta a fraintendimenti o furbesche interpretazioni. Le medesime amministrazioni , senza “se” e senza “ma”, hanno il dovere di garantire l’accesso civico pubblicando obbligatoriamente e in maniera comprensibile, sui siti istituzionali, atti , provvedimenti , dati e informazioni ( integri, aggiornati, completi, semplici da consultare, conformi ai documenti originali, di chiara provenienza, agevolmente scaricabili) riguardanti il complesso dell’attività pubblica a cominciare dagli appalti, dalle spese sostenute per il mantenimento delle strutture organizzative, dai concorsi, dalle opere pubbliche, dai redditi e patrimoni posseduti dai politici e dagli amministratori, dai compensi erogati agli organi politici, ai dirigenti, ai consulenti, ai componenti degli uffici di diretta collaborazione e così enucleando. Pesanti le conseguenze per chi non si adegua: sono previste salate sanzioni pecuniarie, quantificate e comminate direttamente dall’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione). A meno di ulteriori “colpi di coda”, si può affermare che pubblicità e trasparenza all’interno dei Palazzi non dovrebbero più essere soltanto belle parole.
Si volta pagina, dopo anni di attese, delusioni e ritardi. Proprio per questo, all’interno delle p.A. c’è chi storce il naso o fa finta di niente. Comportamenti che non bisogna sottovalutare, perché, nel breve e nel lungo periodo, possono rivelarsi assai pericolosi per boicottare quanto è stato immaginato e prodotto negli ultimi mesi. Quello che è avvenuto in passato, del resto, è assai illuminante. Nel 1990, in occasione dell’entrata in vigore la legge sulla cosiddetta “trasparenza amministrativa”, furono in molti ad enfatizzarne la portata “storica” e “rivoluzionaria”. Difettando, però, le risorse per farla funzionare, un diffuso impegno in tutte le sedi per la sua reale attuazione e, soprattutto, severe sanzioni contro “chi rema contro”, è emersa tutta la sua fragile natura di legge “manifesto”, inidonea a conseguire l’ambizioso obiettivo di rendere efficiente e leggibile l’elefantiaco ed antiquato apparato pubblico. Cittadini, imprese ed operatori del diritto, fra proteste e contenziosi, negli anni, hanno evidenziato limiti e ostacoli, prevalentemente con riferimento all’aspetto più importante della legge ossia al controverso diritto d’accesso ai documenti amministrativi. Quest’ultimo, mal visto sul nascere da certa politica e da non pochi alti e medi burocrati proni ai suoi voleri, è stato spesso ipocritamente sterilizzato e, dunque, ha prodotto scarsi effetti sul piano pratico. Anzi, lo straripante ottocentesco segreto d’ufficio (inconcepibile in una democrazia moderna) e la riconosciuta assurda supremazia, mista ad autoreferenzialità, della pubblica amministrazione, al servizio, spesso, del “potere” e non dell’utenza, hanno svuotato di contenuto ogni proposito riformatore.
Con simili chiari di luna, l’accesso agli atti (e alle informazioni) si è rivelato a tutti i livelli, e particolarmente in importanti regioni del sud come la Sicilia, insoddisfacente, parziale, fastidioso, limitato a pochi e non alla generalità dei cittadini, oneroso, pieno di improvvisati artificiosi “paletti” (si è invocato, spesso a vanvera, la tutela della privacy!) e capziosi trabocchetti. Insomma quasi una semi-burla che ha scalfito, appena marginalmente, l’impenetrabilità dei pubblici uffici, come dimostrano, anche, le copiose decisioni dei giudici amministrativi. Le sentenze dei TAR, spesso, hanno evidenziato un modus operandi della pubblica amministrazione più propenso a negare che a soddisfare il diritto d’accesso. Quanto poteva durare, ancora, tale anomalia tutta italiana, visto che in molti paesi europei, in materia, sono molto più avanti di noi? Anche se l’affermazione può apparire eccessiva, c’è voluta la non del tutto applicata normativa anticorruzione (legge 190 del 2012 e decreto legislativo 33 del 2013), per mettere a nudo, dopo molti lustri, tutte le incongruenze e criticità di una legge e di un apparato amministrativo slegato dalla realtà, premoderno, distante dai bisogni e dalle attese della gente, miseramente avvitato su se stesso proprio mentre l’economia langue , la disoccupazione cresce vertiginosamente (in Sicilia il dato statistico è assai amaro) e la patologica questione morale ha unificato l’Italia più di quanto si creda. Si è compreso, finalmente, che la democrazia italiana forse si salva se la pubblicità e la trasparenza, all’interno delle istituzioni e negli uffici, avranno il sopravvento e costituiranno la vera occasione per inaugurare una efficace stagione dei diritti di cittadinanza.
Tuttavia, dal 2013 ad oggi, gli interventi amministrativi non sono stati all’altezza delle chiare indicazioni contenute nella legge anti corruzione. Sono state accampate scuse, talvolta risibili, per giustificare lo scarso uso degli strumenti informatici nei rapporti con il cittadino, o per alleviare la durezza dei rilievi sulla non “idoneità” di non pochi siti web istituzionali, causa non secondaria della scarsa azionabilità dello “accesso civico” (a differenza dal tradizionale diritto d’accesso, non è oneroso e può essere attivato da chiunque senza spiegarne i motivi). Fortunatamente, dopo massicce dosi di chiacchiere e promesse, si è preso atto che l’Italia non poteva fare a meno del Foia e il governo, attraverso decreti legislativi, dopo oltre un quarto di secolo dalla legge sulla trasparenza del 1990 e altre normative di settore, ha eliminato, sia pure con qualche ritardo, “il troppo e il vano” e, soprattutto, ogni scudo protettivo usato da quanti hanno, con artifizi e furbizie, ridicolizzato le legittime aspettative dei cittadini. Un fatto positivo messo in discussione, forse, dalle recenti Linee Guida Anac sugli obblighi di pubblicazione (ivi comprese le eccezioni all’accesso generalizzato), che lasciano intatti margini di discrezionalità (un non senso giuridico!) agli uffici, potendo i medesimi effettuare “valutazioni” caso per caso che non tutti sono e saranno in grado di fare per svariati e diversi motivi.
Insomma un eccesso di “prudenza”, non riscontrabile in altri più evoluti Paesi europei, che nuoce non poco alla portata innovativa del Foia. Comunque non bisogna demordere perché si è in presenza di una occasione assai rara di reale cambiamento, dall’indubbio valore etico e civile, proprio mentre avanzano populismi e demagogia. In attesa di vere riforme e di buone leggi elettorali, con il Foia ci sarebbe materia per far sentire i cittadini meno marginali e più partecipi. In tutti gli uffici, dall’Alto Adige alla Sicilia, i responsabili per la prevenzione della corruzione e per la trasparenza, unitamente ai responsabili per la pubblicazione dei contenuti sui siti web, si attrezzino, superando ritardi e ingiustificati tentennamenti, a svolgere ruoli meno formali o protocollari. La qualità della democrazia, perché no?, potrebbe migliorare anche in funzione della loro prestazione , a patto che sia molto dinamica, imparziale e più al servizio del cittadino . E Dio solo sa, ad esempio, dopo le fasulle promesse “rivoluzionarie”, quanto sia urgente che ciò si verifichi prevalentemente nella nostra bistrattata e malgovernata Regione.
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