Vogliamo richiamare l’attenzione su due ordini di motivi riguardanti:
- la storia del continente africano, segnata profondamente dalla schiavitù e dal colonialismo
- e l’importanza del continente africano per i futuri scenari migratori italiani ed europei.
Si hanno documenti scritti sullo sfruttamento degli schiavi che risalgono alla metà del XV secolo. Ad esempio, nel 1441 i portoghesi portarono in Europa dieci schiavi e li offrirono a Papa Eugenio IV, mentre l’8 agosto 1444 sulla piazza di Lagos (Portogallo) furono esposti per la vendita 235 africani, tra cui dei bambini. Veri e propri mercati degli schiavi esistevano in Medio Oriente, alla Mecca e a Zanzibar e, in Europa, a Cadice, a Siviglia e in altre città. Questa triste storia, che vide l’Europa protagonista in negativo, durò fino all’inizio del XIX secolo. Oltre agli europei, impegnati nella tratta atlantica, anche gli arabi praticarono per secoli la schiavitù, con la massima intensità nel XIX secolo.
Ne derivò un pauroso impoverimento del continente non solo sul piano demografico ed economico ma anche umano e culturale.
La schiavitù veniva praticata anche prima del XV secolo, tant’è, per esempio, che l’imperatore del Mali nel XIV secolo aveva schiavi bianchi, soprattutto turchi acquistati al Cairo, ma nel corso del Quattrocento la novità fu che gli europei arrivarono a una sua gestione capitalistico-industriale che durò per cinque secoli (XV-XIX) al fine di soddisfare il bisogno di manodopera delle sterminate distese americane. A praticarla, inoltre, furono popolazioni caratterizzate profondamente da un credo religioso, cristiano o musulmano, cosa che lascia ancora oggi disorientati gli africani. A quel tempo non insorgevano particolari problemi di coscienza, come attestano alcuni nomi dati alle navi negriere (La Giustizia, Nostra Signora del Rosario, Regina degli Angeli, Spirito Santo) e come ricordano alcune citazioni.
“Questo commercio sembra inumano a quelli che non sanno che questi poveretti sono idolatri e maomettani, e che i mercanti cristiani comprandoli ai loro nemici li liberano da una crudele schiavitù e fanno loro trovare, nelle isole in cui sono deportati, non solo una schiavitù più dolce, ma anche la conoscenza del vero Dio, e la via della Salvezza”. (Jacques Savary, Il perfetto negoziante, 1677).
“Non ci si può mettere in testa che Dio, che è un essere sapiente, abbia posto un’anima, soprattutto un’anima buona, in un corpo tutto nero”.
(Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 1748).
In ambito cristiano la schiavitù era accettata e, anzi, molti pensavano che fosse un’occasione per la conversione delle persone coinvolte. Lo stesso Papa Paolo II, il 12 gennaio 1549, emanava un bando “sopra al tener degli schiavi a Roma”, autorizzandone il possesso in considerazione della pubblica utilità. Solo Leone XIII nel XIX secolo prese categoricamente posizione contro la schiavitù, mentre nel frattempo era andata definendosi e radicandosi un’ideologia giustificatrice anche di tipo laico, poi sfociata nel razzismo scientifico.
Pur essendo stata abolita ufficialmente la tratta degli schiavi dal Congresso di Vienna (1815), bastimenti carichi di genti africane ridotte in schiavitù continuarono a fare scalo in Sicilia, per poi salpare alla volta di Marsiglia e da lì continuare verso l’America, dove era proibita solo la tratta degli schiavi, ma non il loro commercio: l’ultimo di questi viaggi toccò la Sicilia nel 1833.
Questo triste commercio ha provocato un enorme indebolimento del continente africano, ulteriormente aggravato dall’artificiale divisione geopolitica operata sulla base degli accordi intercorsi alla Conferenza di Berlino (1884) che disegnò (e ancora disegna) sulla carta geografica la divisione degli Stati africani, tenendo scarso conto della distribuzione “etnoculturale” delle popolazioni, spesso divise tra più Stati. Questi confini permangono anche dopo il declino del colonialismo politico, intervenuto a partire dagli anni ’50 del Novecento e completato con l’indipendenza delle colonie portoghesi e dell’Eritrea, pur rimanendo tuttora irrisolta la questione dell’autonomia di alcune aree interne. Altra cosa è, invece, il neocolonialismo economico con le attuali nuove forme di sfruttamento. Impoverimenti così profondi, come quelli indotti da schiavitù e colonialismo, aiutano a capire perché l’Africa riesce a dimostrare una capacità demografica che non si traspone a livello economico e politico. Così ha sostenuto Joseph Ki-Zerbo (1922-2006), cristiano, esponente politico anticolonialista di spicco dell’Alto Volta (Burkina Faso dal 1984), conosciuto e attivo anche in altri Paesi africani, nonchè autore di numerosi saggi sulla cultura e sulla storia africana (celebre e innovativa l’Histoire de l’Afrique noire, des origines à nos jours del 1972, pubblicata da Einaudi cinque anni dopo), fondatore del Centro Studi per lo Sviluppo Africano (CEDA). Secondo Ki-Zerbo l’Africa aveva raggiunto un elevato sviluppo sociale, politico e culturale prima del declino indotto dalla tratta degli schiavi prima e dal colonialismo poi. Secondo le stime di Ki-Zerbo, sono stati deportati 19 milioni di schiavi in America, 4 milioni verso l’Oceano Indiano e 10 attraverso il Sahara, per cui si arriva a superare complessivamente i 30 milioni. Se queste persone fossero rimaste sul posto, avrebbero assicurato all’Africa almeno altri 200 milioni di abitanti, con conseguenze positive sullo sviluppo del continente. Alla schiavitù va addebitato, quindi, anche il mancato aumento della popolazione in Africa (130 milioni nel 1945, tanti quanti ve ne erano nel XVI secolo).
Demografia e potenziale migratorio
Come denunciato dall’economista William Easterly, per quanto riguarda le condizioni e i problemi del continente africano tra il 1938 e il 2005 non si sono registrati effettivi cambiamenti in meglio. Alla fine degli anni ’30, in pieno regime coloniale, il Lord inglese William Hailey pubblicava una ampia inchiesta sul campo (l’African Research Survey del 1938) attraverso la quale venivano enucleati problemi e interventi che, passati 70 anni, ancora oggi sono ritenuti di carattere prioritario nell’ambito dei cosiddetti “Obiettivi di Sviluppo del Millennio”. Nella contingenza presente, le interconnesse quanto complesse questioni demografiche, socio-economiche, nonché politiche sembrano pertanto destinare l’Africa ad un’ulteriore marginalizzazione internazionale. Tuttavia, nonostante pandemie, crisi alimentari, guerre civili e sconvolgimenti apportati dal cambiamento climatico, la popolazione africana è destinata ad aumentare di un altro miliardo di persone entro il 2050. Secondo molti esperti l’impressionante crescita demografica che si prospetta nei prossimi anni potrebbe aggravare lo stato di povertà e la debole governance delle risorse naturali, anche a causa della fuga dalle campagne. In un continente in movimento come l’Africa sarà difficile evitare che i migliori talenti partano per cercare migliori opportunità all’estero, ma non impossibile tentar di recuperarli come agenti di sviluppo per il proprio Paese, incentivandone il ritorno nelle sue varie forme (rimpatrio, rimesse, ritorno di competenze, ecc). Eppure, nonostante un quadro che non si annuncia affatto facile, nel 2050, raggiunti i 2 miliardi di abitanti, l’Africa supererà in termini demografici India (1,6 miliardi di persone) e Cina (1,4 miliardi) proponendosi alle generazioni future come “terzo gigante” mondiale. Avere molti giovani e godere di una superiore crescita demografica sembra sempre più una occasione di sviluppo piuttosto che una zavorra. Basterebbe poter investire su infrastrutture e istruzione per far fruttare questo immenso potenziale umano. Mancano solo 40 anni: il dibattito è aperto per far sì che questa non sia per il continente africano l’ultima occasione per uscire dalla periferia della storia. E in questo dibattito vanno inserite anche le migrazioni, da valorizzare come fattore di sviluppo e di speranza per un continente così martoriato.
L’immigrazione africana in Italia, fra storia e prospettive
Fin dagli anni ’90, in cui si collocano l’origine dell’immigrazione di massa in Italia e la “legge Martelli” (39/1990), gli africani hanno inciso all’incirca per un quarto sull’intera presenza straniera in Italia e, con leggere variazioni (si sono ridotti a circa un quinto alla fine del 2008; 871.126 residenti), sono riusciti a mantenere alta l’incidenza nonostante il prevalente protagonismo degli europei dell’Est degli ultimi due decenni. Attualmente, le Regioni italiane in cui la componente africana risulta statisticamente significativa sono la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte e il Veneto: nel complesso, queste realtà territoriali detengono circa i due terzi di tutti gli africani residenti in Italia. A livello nazionale, in 7 casi su 10, gli immigrati africani giungono dall’area settentrionale, in particolare dal Marocco, Paese che da solo assorbe quasi la metà di tutti i residenti africani in Italia. Se, come si prospetta, l’Africa raggiungerà i due miliardi di abitanti, si calcola che saranno tre gli effetti che influenzeranno la situazione italiana: un aumento significativo della presenza africana; al suo interno, un aumento della componente subsahariana; infine, una maggiore dispersione territoriale. Dal livello attuale (circa un milione di africani) si passerà a un forte incremento se non al raddoppio e oltre. I ritmi di questa evoluzione dipenderanno anche (ma non meccanicamente) dalle riserve di manodopera che continueranno ad arrivare dai Paesi esteuropei. Il secondo effetto che si determinerà consisterà nell’aumento degli africani provenienti dai Paesi subsahariani, modificando la proporzione attuale, per la quale ogni tre presenze africane, due provengono dal Nord Africa. Il terzo effetto consisterà in una più marcata presenza africana, oltre che nelle prime Regioni in graduatoria (Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto) e in altre che
le affiancano, in tutta la Penisola e anche nel Meridione. Se oggi vi sono all’incirca 2 africani ogni 100 italiani, in prospettiva sembra probabile il raddoppio, anche se con un’incidenza inferiore a quanto si riscontra in Francia, Spagna e Portogallo; comunque sia, superiore a molti altri Stati membri. L’ILO ha stimato che siano già 20 milioni i lavoratori africani emigrati (anche all’interno dello stesso continente) e ha previsto che per il 2015 circa il 10% della popolazione vivrà all’estero. È appena il caso di sottolineare come gli scenari tratteggiati non costituiscano una mera ipotesi, ma parte integrante del futuro del Paese. Questa prospettiva porta necessariamente a rivalutare il ruolo del Mediterraneo quale spazio privilegiato di confronto e scambio, se possibile con una rinnovata capacità di accoglienza rispettosa dei diritti dei nuovi venuti e funzionale sia allo sviluppo delle regioni ospitanti sia dei Paesi di origine.
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