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I Chiaroscuri – Quando le parole sono pietre

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La nostra società viene spesso definita come quella in cui le comunicazioni sociali hanno sconfitto le distanze che un tempo separavano gli individui, impedendo loro di scambiarsi informazioni, opinioni, esperienze. Questo però, insieme a evidenti vantaggi, fa nascere anche dei problemi. Sta sotto i nostri occhi il fatto che proprio l’enorme incremento della comunicazione genera, in misura direttamente proporzionale, un aumento della conflittualità.

Il conflitto, peraltro, è un fatto del tutto fisiologico nella vita degli esseri umani. Esso è un modo di entrare in rapporto con chi ci inquieta con la sua diversità e rimette in discussione le nostre certezze e le nostre abitudini. Proprio per questo il conflitto ci arricchisce, perché ci costringe a guardarci, per così dire, dal di fuori, con gli occhi dell’altro.

Gestire un conflitto, però, è sempre una cosa delicata e impegnativa, e la tentazione che spesso subentra è di sottrarsi ad esso. Si può allora eluderlo e impedire che affiori, oppure chiuderlo unilateralmente eliminando l’altro – uccidendolo (Caino era in conflitto con Abele e a un certo punto non ne poté più…), oppure ostracizzandolo, o demonizzandolo. Questa è la violenza.

Il mondo attuale è pieno di questi conflitti degenerati in violenza, o perché soffocati prima di nascere, o perché interrotti liquidando chi non è come noi vorremmo. Alcuni sono evidenti e se ne parla molto: si pensi al femminicidio (ma, per restare al campo dei rapporti tra uomini e donne, era violenza pure quella che spesso, in un recente passato, portava molte figlie e mogli a rimuovere, prima che nascesse, il conflitto con un padre o a un marito padrone…).

Ci sono invece comportamenti violenti a cui si fa meno attenzione. Quelli legati alla comunicazione sono tra questi. Parlando, nello scorso febbraio agli studenti dell’Università Roma Tre, papa Francesco, interrogato da una ragazza sulle radici della violenza che oggi imperversa nella nostra società, ha insistito sul ruolo del linguaggio. «Tu hai parlato della violenza, ma pensiamo al linguaggio. La tonalità del linguaggio è salita tanto. Oggi si grida per strada, a casa, ci si insulta con normalità. C’è anche la violenza nell’esprimersi, nel parlare. Questa è una realtà che tutti viviamo. Se c’è qualche problema, prima si insulta e poi si domanda il perché (…). Questo si vede tanto quando ci sono campagne elettorali, le discussioni in tv. Uno parla prima che l’altro finisca la risposta: ma aspetta, prima ascolta e poi rispondi, e se non capisco la domanda prima chiedo!»

Da qui una importante indicazione: «Bisogna abbassare un po’ il tono e bisogna parlare meno e ascoltare di più (…). Prima discutere, dialogare. Sì, tu pensi in modo differente da me, ma prima dialoghiamo. Il dialogo avvicina le persone, i cuori, con il dialogo si fa l’amicizia»

Per superare l’attuale clima di violenza è dunque necessaria, prima di ogni cosa, «la pazienza del dialogo. Dove non c’è dialogo, c’è violenza (…). Le guerre (…) cominciano nel tuo cuore, nel nostro cuore. Quando io non sono capace di aprirmi agli altri, di rispettare, parlare, dialogare con gli altri, lì comincia la guerra».

Ritroviamo nelle parole del papa i connotati della violenza come li abbiamo descritti: la parola – che dovrebbe permettere di incontrarsi nella diversità e confrontarsi o scontrarsi a partire da essa – viene di fatto usata per sovrastare la voce dell’altro, esonerando se stessi dall’ascoltarla e impedendo a chiunque di udirla.

I nuovi mezzi di comunicazione hanno esaltato e portato all’estremo limite questo pericolo. Non penso qui soltanto ai parossistici talk show televisivi, spettacolo di sopraffazione reciproca dove non importa neppure capire cosa dicano gli interlocutori. Ormai l’esercizio della violenza verbale trova la sua maggiore diffusione sui social, dove si può dire tutto di tutti senza risponderne, in base ai propri umori, ai propri rancori, a volte ai propri interessi.

church-splitPurtroppo ciò accade anche – anzi a volte con maggiore accanimento – nell’ambito della comunicazione intra-ecclesiale. È incredibile constatare come uomini e donne che si appellano all’amore evangelico non esitino, su facebook o su altri social, a massacrare fratelli e sorelle nella fede sotto una valanga di insinuazioni, accuse, perfino insulti, magari con la giustificazione di dover “difendere la verità”. Con effetti ben più devastanti dei pettegolezzi che una volta si facevano sul sagrato della chiesa all’uscita dalla messa domenicale, perché ora i messaggi denigratori e i giudizi sommari che bollano una persona raggiungono potenzialmente migliaia di destinatari.

A questo triste sport sono dediti con passione sia i cosiddetti “conservatori”, sia i cosiddetti “progressisti”, entrambi impegnati a negare ai loro interlocutori, quando dicono cose che essi non condividono, il diritto elementare di essere ascoltati, compresi e rispettati.

Con l’aggravante, per i primi, di avere sempre invocato, quando l’indirizzo del magistero era favorevole alle loro idee, un rispettoso silenzio in nome dell’obbedienza (ora, invece, molti di loro non esitano a mettere sotto accusa perfino il papa); per i secondi, di essere stati fino a poco tempo fa difensori del diritto di dissentire (ora, invece, cercano di ridicolizzare e mettere a tacere chi non è d’accordo con la linea ufficiale). Senza contare – ed è il caso più triste – quei conservatori che, col nuovo pontificato, sono saliti sul carro del vincitore e che, seguendo la loro antica abitudine alla censura, a volte sono i più accaniti nel chiedere, con toni esagitati, la testa di chi ha obiezioni sul nuovo corso.

Non rimpiango certo il tempo in cui nella Chiesa le discussioni erano bandite, in nome di una soffocante unità: anche quello era un conflitto abortito e quindi una violenza. Ma ciò a cui oggi assistiamo non è, in molti casi, un vero dialogo che valorizzi le diverse opinioni, bensì un modo di escluderlo, costruendo sul volto dell’altro, con le proprie interpretazioni del suo pensiero, una maschera deformante che lo sfigura e finisce per cancellarlo.

Papa Francesco ha ragione: questa è violenza. Il Vangelo chiede altro. E noi abbiamo il diritto di esigere che almeno all’interno della comunità cristiana, viga il criterio del rispetto verso i fratelli e dell’ascolto reciproco. Che almeno qui – in un mondo dominato dalla sopraffazione reciproca – le parole non siano usate come pietre.

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