I
l vangelo di questa XIII domenica del Tempo Ordinario conclude il cosiddetto “discorso missionario” redatto da Matteo, dal quale era tratta anche la lettura su cui abbiamo meditato la scorsa settimana, con l’invito a non aver paura, poiché ogni istante della nostra vita è nell’abbraccio di Dio. Nel medesimo “discorso” Matteo raccoglie altri detti e insegnamenti di Gesù, alcuni dei quali presenti anche in altre tradizioni confluite nel Nuovo Testamento; queste molteplici attestazioni indipendenti, seppur con parole leggermente diverse, oltre ad una radicalità inaudita che poteva creare qualche imbarazzo, rendono molto plausibile agli occhi di qualsiasi storico l’ipotesi che possano effettivamente risalire a parole del Gesù storico. Vediamo allora come si è sedimentato il testo evangelico di oggi.
Profeta escatologico itinerante, Yeshua ben Nazareth chiedeva ai suoi di seguirlo fisicamente per tutta la Palestina, con sforzi non da poco; si trattava effettivamente di uscire dal nucleo di protezione sociale fondamentale che era quello della famiglia (in genere allargata) che in molti casi poteva mostrare contrarietà verso un figlio che volesse intraprendere questa ignota “vita nuova per Dio” (come la definisce Paolo nella seconda lettura: Rm 6,3-4.8-11). Ecco, Gesù vuole evitare che la comprensibile apprensione da parte dei parenti si trasformi in paura che contagia chi intende percorrere il cammino con lui. In tal senso, avverte della possibile ostilità da parte dei famigliari biologici; probabilmente lui stesso aveva sperimentato una sensazione analoga, se è vero l’imbarazzante passo secondo cui “neppure i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). Se Gesù nel vangelo secondo Luca parla di “odiare” tutti i parenti e persino la propria vita (Lc 14,26), Matteo rende in una forma anche a noi più comprensibile il medesimo messaggio: non si tratta di “voler male” ad essi, per i quali vige pur sempre il “quarto comandamento”, bensì di “voler più bene” a Gesù, chiamato ad annunciare la famiglia nuova del Regno di Dio, l’unico Padre. Un simile scenario di ostilità dei famigliari si poteva leggere solo in alcuni testi profetici apocalittici-escatologici riferiti alla venuta del Messia (es. Mi 7,6), mentre era lontana dalla sapienza quotidiana del popolo ebraico.
Insomma, i discepoli erano chiamati ad una scelta forte: dovevano decidersi se mettere in gioco tutta la loro esistenza, inclusi i legami di sangue, le sicurezze economico-sociali (qualora presenti) e le aspettative sul futuro; dovevano decidersi tra due possibilità di vita: o continuare in quella “comoda” – che spesso neppure era troppo comoda – attuale, o rischiare tutto per quella proposta da Gesù. Il quale a più riprese ribalta il senso comune, spiegando che “chi si accontenta non gode”, anzi, perde ciò che crede di avere (cfr. ad esempio la parabola dei talenti in Mt 25,14-30), ma realisticamente illustra pure i rischi terreni cui si può andare incontro. Solo perdendo la vita passata – e Matteo offre un chiarimento alle prime comunità cristiane: per la causa di Gesù – è possibile trovare la vita vera promessa da Gesù, che è il tesoro dove è bene collocare il proprio cuore (cfr. Mt 6,21), ovverosia il centro dei pensieri. Il Talmud ebraico (Tamid 32a) riflette un sentire paradossale analogo: “Cosa deve fare un uomo per vivere? Risposero: Che si lasci mortificare”. La prospettiva sembra più estesa rispetto a quella di una morte fisica, non esclusa da Gesù. Infatti gli studiosi ritengono possibile che egli stesso, prima della crocifissione abbia prefigurato la “croce” di cui si parla al versetto 38; il commentario rabbinico (del III-V secolo d.C.) della Genesi Rabbah attesta che “portarsi sulla spalla il palo (del patibolo)” era un’espressione presente anche in un ambiente giudaico non cristiano, che ha la propria origine nel “legno dell’olocausto” (Gen 22,6) caricato sulle spalle di Isacco. Sicuramente dopo gli eventi pasquali la comunità ha interpretato tale riferimento alla croce con una forza assai più incisiva. Anche nella spiritualità contemporanea si è certi che per essere seguaci di Gesù bisogna “saper perdere”, “disamare”, “spostare tutto. Il che non significa amare di meno ma solo mettere l’amore verso Dio al primo posto”, diceva Chiara Lubich, che ricordava: “la Parola di Dio è vita; ma si ottiene passando per la morte; è guadagno ma si ha perdendo; è crescita, ma si ha diminuendo”.
La consapevolezza quindi è divenuta col tempo sempre più forte: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”; la proprietà del rappresentante che è in tutto e per tutto equivalente a chi è rappresentato, con Gesù riconosciuto Risorto, porta a vedere nei suoi “piccoli” discepoli degli alter-Christi, con una Grazia che si estende a tutti coloro che li aiutano e li accolgono. È un circolo virtuoso. O meglio, un’accoglienza reciproca che ha una fonte: accogliere la Croce significa accogliere Gesù e pertanto accogliere il Padre; a sua volta, anche accogliere un discepolo significa accogliere Gesù e accogliere il Padre. Pure chi è al di fuori della cerchia dei “cristiani” – radicali nella fedeltà alla chiamata ma, diversamente da altri gruppi, aperti altrettanto radicalmente agli esterni – ha quindi la possibilità e la garanzia di poter accogliere il Padre.
Se cerchiamo allora una risposta all’interrogativo: “chi è degno di Gesù?” – “degno” è un aggettivo usato da Matteo più di ogni altro autore, e ben 7 volte su 9 in questo capitolo – forse qualche indizio lo possiamo avere non solo dai versetti 40-42, ma pure dalla prima lettura, con la ricca straniera di Sunem che accolse il profeta giusto Eliseo (2Re 4,8-11.14-16). Ecco, lei è degna; non tanto per la sua religiosità o la moralità, che non ci è dato conoscere, ma per l’aiuto concreto – letto, tavolo, sedia, candeliere – che ha offerto in quel momento preciso, quando occorreva, ospitando gratuitamente la Grazia di Dio che Eliseo portava, avendola riconosciuta. In qualche modo ha potuto contribuire alla causa di Dio: è divenuta così degna e, senza aspettarselo, ha ricevuto un figlio in dono. Accogliamo anche noi la Croce; accogliamo con fiducia sia il suo calice (poterion, cfr. Mt 20,22-23; Mt 26,27.39), sia quel “bicchiere d’acqua fresca” (anche qui poterion, in Mt 10,42) che persino un “estraneo” ci può offrire, accogliendoci con una ospitalità tale che neppure un parente biologico potrebbe darci. Accogliamo, perché siamo accolti; accogliamo, e saremo accolti.
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