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I Chiaroscuri – Quo vado?

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savagnone-3-small-articoloSi potrebbe intitolare “la carica dei dodicimila”. Sono dodicimila i candidati, provenienti da tutta l’Italia, che l’11 luglio si sono presentati davanti ai cancelli della Fiera di Genova per il concorso a 200 posti di infermiere, 100 a Genova, 100 nelle Asl della Liguria. Le fotografie pubblicate sui media mostrano una massa impressionante di giovani che si accalcano contro i cancelli, come nei documentari girati in America durante la grande depressione.

L’evento in sé non ha nulla di straordinario, ma si presta ad alcune considerazioni. La prima riguarda la fame di un “posto” che ormai domina il nostro Paese, anche in settori, come quello paramedico, dove si favoleggiava, fino a poco tempo fa, di ampie possibilità di assunzione. Che tante persone si siano precipitate, anche venendo da lontano, con tutti i mezzi di trasporto (sono stati noleggiati perfino dei pullman), per partecipare una prova il cui esito appare chiaramente molto aleatorio, è un’evidente smentita della maligna insinuazione spesso ripetuta, secondo cui “il lavoro c’è, sono i giovani di oggi che non si vogliono scomodare a cercarlo”.

A dire il vero – è una seconda considerazione suggerita dal maxiconcorso di Genova -, quello che molti, da noi, cercano disperatamente non è, propriamente parlando, un lavoro, ma un posto. In Italia il mito del “posto fisso” non è mai tramontato. Come Checco Zalone nel film Quo vado?, l’italiano medio vuole a tutti i costi una sistemazione che gli dia sicurezza e stabilità. A volte come base per lavorare meglio, a volte – soprattutto al Sud – , come alibi per lavorare il meno possibile. Sono evidenti i limiti di questa mentalità. Non si può negare, però, che – fermo restando che il “posto” dev’essere posto di lavoro e non di stipendio – non tutti hanno le doti creative per “inventarsi” un’occupazione in grado di renderli autonomi economicamente, sopravvivendo alla spietata concorrenza della società capitalista.

Appartiene allo stesso trend la diffusione dei lavori a contratto o comunque a termine – inizialmente legata alla crisi economica, ma ormai sempre più entrata nella norma -, che ha praticamente vanificato il sistema di difese costruito dai sindacati per garantire il posto (vi ricordate l’art. 18?). Anche qui si può vedere, certamente, uno stimolo al senso di responsabilità verso il proprio lavoro. Ma è legittimo il dubbio che tutto ciò possa trasformarsi in un permanente stato di soggezione del lavoratore nei confronti del suo datore di lavoro, a scapito della sua autonomia e della sua dignità

I sostenitori di un’economia più agile, più dinamica, vedono in queste trasformazioni un progresso che porterà a mobilitare e valorizzare le energie migliori e portano l’esempio di Paesi, come gli Stati Uniti, dove da tempo il mercato del lavoro è caratterizzato da una grande mobilità.

C’è da chiedersi, tuttavia, se sia corretto il paragone del nostro statico sistema economico e sociale con quello, immensamente più dinamico e recettivo, di altre Nazioni. Negli Stati Uniti, è vero, si può perdere facilmente il posto, e questo stimola a far bene il proprio lavoro (si pensi alle Università americane, dove il docente viene continuamente sottoposto a valutazioni e non può, come in Italia, godere di una totale impunità se non svolge al meglio la sua funzione); ma chi lo perde può trovarne un altro, anche se magari meno gratificante, in attesa di ulteriori prospettive. Da noi il disoccupato rischia di restare a spasso vita natural durante, e questo è un dramma sia per il giovane che deve farsi una famiglia, sia per una persona non più giovanissima, che la famiglia già ce l’ha. La “flessibilità” rischia allora di essere solo un ambiguo eufemismo per non pronunziare la parola “precarietà”. Così almeno sembrano pensarla i dodicimila aspiranti al posto (fisso) di infermiere, che devono aver visto anche loro il film di Zalone…

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Peraltro c’è da interrogarsi sulle conseguenze che avrebbe – o che avrà – l’eventuale riuscita del modello neocapitalistico di lavoro “flessibile” nella nostra società. Un effetto immediato di questo modello è la provvisorietà, di cui abbiamo già le prime avvisaglie, dei rapporti affettivi. Per due giovani che non hanno un futuro professionale certo e che peraltro potrebbero averlo in città, in regioni o addirittura in nazioni diverse, sposarsi diventa un azzardo che un numero sempre crescente non si sente di correre. Le convivenze sono destinate a crescere esponenzialmente. E, a seconda della nuova destinazione lavorativa, ci si troverà sempre più spesso costretti a scegliere tra una vita monastica, poco ambita dalla maggior parte dei giovani, e la convivenza con partner di volta in volta diversi.

Analogamente, la decisione di avere dei figli, in questo quadro, richiede un certo margine di eroismo, tanto più in un Paese come l’Italia dove gli investimenti pubblici per il sostegno alla maternità e alla paternità sono la metà che in altri Paesi dell’UE e non si può contare, perciò, su un valido appoggio. Ma, anche là dove questa assistenza vi fosse, rimane il rischio che i bambini si trovino a crescere con uno solo dei genitori – di solito la madre – invece che all’interno di una famiglia.

Sono scenari allarmanti di un futuro che è già cominciato. Qualcuno chiederà: e allora? Non ho ovviamente ricette. Solo un dubbio da condividere: ma siamo davvero sicuri che la strada del neocapitalismo, oggi seguita pedissequamente anche dal nostro Paese, sia l’unica possibile? È veramente impossibile ipotizzare vie di sviluppo diverse che, senza ricadere nei pericoli del “posto fisso”, interpretino il mercato in modo compatibile con la dignità del lavoro e con le esigenze della famiglia? Nel mondo cattolico ci sono studiosi che da tempo stanno lavorando seriamente all’elaborazione di un’alternativa. Ma non sembrano trovare eco adeguata nell’opinione pubblica né riscontro a livello politico. Gli stessi sindacati non sembrano in grado di ipotizzare orizzonti veramente diversi da quelli attuali. Perciò le loro battaglie danno l’impressione di svolgersi all’interno di una guerra già perduta. Forse è venuto il momento di unire le migliori energie per avanzare un nuovo modello si sviluppo, che non separi l’economia dalle esigenze di coloro a cui essa dovrebbe servire. Per non ritrovarci schiavi dei meccanismi disumani che stiamo creando.

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