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Chi crede ancora al Natale?

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Chi crede ancora al Natale? Dopo averlo per tanto tempo identificato con la visita del gran vecchio barbuto, che sulla slitta trainata dalle sue renne viene a portare doni ai bambini buoni, è diventato difficile attenderlo ancora con gioia vera, ora che i vecchi sono confinati nelle case di riposo e i bambini hanno ormai acquisito una mentalità consumistica che li porta a comprarsi da soli quello che vogliono. Così, in questi giorni di vigilia e in quello della festa ci si scambiano ancora calorosi auguri, ma senza più sapere bene perché.

Del resto, ci sono troppi motivi per non essere serenamente lieti, come il tradizionale clima natalizio richiederebbe. Troppa gente non potrà festeggiare un bel nulla perché il marito, o la moglie, o tutti e due, hanno perso il lavoro e non hanno nessuna speranza di trovarne un altro. Troppi giovani trascinano il loro corso di studi nella frustrazione di sapere che, si impegnino oppure no, al termine di essi li aspetta comunque la disoccupazione. E anche quelli che il lavoro ce l’hanno (ancora), almeno nella maggior parte, risentono pesantemente di una riduzione dei guadagni e, conseguentemente, del tenore di vita.

Non tutti, per la verità. Perché in Italia ci sono dei poveri sempre più poveri e dei ricchi sempre più ricchi. Nel dossier diffuso qualche giorno fa da Bankitalia sulla condizione economica delle famiglie italiane, si legge che il 10 per cento dei più ricchi del nostro Paese detiene quasi la metà dei patrimoni: il 45,9 per cento. Mentre la metà più povera delle famiglie detiene il 9,4 per cento della ricchezza totale. Anche questo non è molto natalizio.

Viene in mente un racconto ebraico in cui si narra che un giorno il discepolo di un famoso rabbi si recò dal suo maestro per confidargli di essere tormentato da una tremenda tentazione, quella di farsi cristiano. «E se il messia fosse davvero venuto?», chiese angosciato. Il vecchio rabbi sedeva vicino a una finestrella. Senza dire una parola, scostò con la mano la tenda e guardò fuori: una povera donna portava in braccio un bimbo emaciato, un mendicante chiedeva l’elemosina, un uomo splendidamente vestito passava, indifferente, per la strada. «No», disse, «non è venuto».

Forse a rendere poco credibile il Natale è questa obiezione, anche se inespressa, più che la eventualità del matrimonio dei gay. La stessa che rende purtroppo poco credibile una Chiesa che parla spesso di quest’ultimo, ma assai meno delle ingiustizie di cui sono vittime milioni di poveri. Non chiediamo che i ricchi vengano condannati all’inferno per il solo fatto di essere ricchi, ma che si dica loro che non possono usare il proprio potere per impedire alla politica di intaccare i loro privilegi, bloccando le misure fiscali nei loro confronti (magari con il ricatto della minacciata fuga di capitali all’estero…) e costringendo i governi a puntare sulle imposte indirette, che colpiscono soprattutto i poveri.

Vorremmo che almeno a Natale si dicesse chiaramente che la nascita di Gesù, a differenza del mito buonista di Babbo Natale, esige una conversione dei cuori che sia visibile anche a livello sociale. Vorremmo che ora che è svanita la favola del vecchio con la barba bianca, i cristiani testimoniassero che, realmente, Dio è venuto nella nostra storia per cambiarla. Per poter cominciare a credere, finalmente, nel Natale, quello vero.

 

Giuseppe Savagnone

 

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