La parabola ci parla del padrone di una vigna, che cerca operai per la vendemmia. Si tratta di una scena che doveva essere certamente frequente al tempo di Gesù, ma questa immagine è anche densa di richiami, perché nell’AT la vigna è spesso metafora per indicare il popolo d’Israele (Cfr. Is 55,7; Sal 128,3; Sir 24,17). Come spesso sottolineato dai Padri della Chiesa, la vigna non è solo luogo di lavoro, sudore e fatica, ma è anche e soprattutto spazio metaforico, luogo ideale dove la relazione sponsale tra Dio e il Suo popolo viene vissuta, meditata e approfondita.
Anche nella parabola odierna la relazione d’amore con Dio ha un posto centrale, che ci spinge a rivederne l’immagine, ad uscire anche noi dall’idea di un Dio padrone, mercenario, legato alla logica del do ut des, per guardare al Padre, che con discrezione aiuta i propri figli, intervenendo dove c’è più bisogno.
All’alba il padrone fa il primo incontro e si accorda per un denaro, il salario di una giornata di lavoro che garantiva la sussistenza di una famiglia; alle nove nuovamente esce per assoldare altri uomini, promettendo loro che avrebbero ricevuto “il giusto”. Quindi ancora una volta a mezzogiorno, alle tre e alle cinque: non si tratta più di assumere operai per lavorare, ma di dare lavoro a uomini che, non avendo trovato nulla quel giorno, non avrebbero avuto il minimo necessario per vivere. Alla sera, al momento di fare i conti della giornata, il padrone da disposizione al fattore di “restituire” a ciascuno la paga, dagli ultimi fino ai primi. A tutti coloro che hanno lavorato per lui Dio da il giusto, che non è la conseguenza di quanto lavorato, ma manifestazione del suo amore misericordioso per noi. Anche chi ha lavorato un’ora soltanto, come nell’episodio dell’obolo della vedova (Mc 12,41.44), ha fatto tutto ciò che poteva e per questo il padrone da anche a lui come agli operai della prima ora.
Gli operai chiamati all’alba, davanti alla generosità del padrone, certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10) rimangono ora delusi. Torna nell’uomo ripetutamente la tentazione di interpretare la relazione con Dio in termini “sindacali”, di rivendicare il giudizio di un Dio giusto e severo piuttosto che l’amore compassionevole di un Dio misericordioso. Gli operai cominciano a mormorare, come gli israeliti nel deserto dopo la Fuga d’Egitto: perché il proprietario avrebbe giudicato il loro lungo e faticoso lavoro sullo stesso piano di quello degli operai sopraggiunti per ultimi? Perché avrebbe corrisposto a tutti la stessa ricompensa?
Non riconoscendo il mio essere figlio, non posso sopportare di avere dei fratelli che ricevono la mia stessa ricompensa, facendo venire meno quello che ritengo essere la legge meritocratica. Il padrone, invece che risentirsi per l’amicizia rifiutata, fa emergere tutta la novità del Regno dei Cieli, dove non vigono la regola del dare e dell’avere, della retribuzione, ma solo la legge della generosità e della gratuità dell’amore del Padre, che fa “sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45), un amore libero e incondizionato, aperto a tutti coloro che lo cercano (cfr. Is 55, 6-9), pronto a dare sempre oltre quello che noi ci aspettiamo.
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