di Giuseppe Savagnone
Si parla molto, in questi giorni, del ruolo dei sindacati, dopo le polemiche sul Job Act e la decisione di Landini di coinvolgere la Fiom nel suo più ampio progetto di opposizione al governo Renzi. In realtà, una riflessione sul sindacato avrebbe dovuto essere fatta già da molto tempo, anche all’interno, dato il suo enorme peso nella vita delle persone e dell’intero Paese.
Oggi molti lo vedono come una forza di retroguardia, incapace di cogliere l’evoluzione della società e le nuove esigenze dell’economia, obbligato a ripetere formule stantie senza vera convinzione. Può darsi che in questo giudizio ci sia del vero, ma mi allarma che ad esultare per le misure del governo siano le organizzazioni del padronato, che stanno ottenendo da un governo “di sinistra” il totale controllo dei loro dipendenti (almeno dei neo-assunti), che non avevano potuto ottenere da quelli di destra.
Che questo favorisca la produttività delle imprese è plausibile. Ma è questo l’unico obiettivo a cui il Paese deve, a qualunque costo, tendere? Il sindacato potrà sbagliare in molte cose, ma su una sono sicuro che ha ragione, e cioè che la dignità e la ragionevole garanzia di stabilità del lavoro (le due cose sono strettamente collegate) sono un valore indiscutibile e, ben lungi dal costituire una richiesta “di classe”, fanno parte del bene comune. Si pensi, per fare solo un esempio, alle ricadute sulle sorti della famiglia. Chi si può sposare sapendo che il suo datore di lavoro, per una propria insindacabile decisione, potrebbe congedarlo dopo un periodo relativamente breve? Chi può decidere ragionevolmente, , in queste condizioni, di mettere al mondo dei figli?
Si dirà che è così in altri Paesi. Ma qui non siamo in America, dove l’abbondanza di risorse e di opportunità rende normale il passare da un lavoro all’altro senza soluzione di continuità. E neppure in Germania, dove l’indennità di disoccupazione costituisce l’equivalente di un nostro stipendio. Qui chi perde il lavoro è rovinato.
Ma forse anche il sindacato ha le sue responsabilità nell’indebolimento della propria credibilità. Il suo modo di curare i diritti dei propri iscritti troppo spesso si è configurato come una difesa indiscriminata del “posto”, piuttosto che dei lavoratori. Ogni volta che il dipendente di un’azienda o di un ente pubblico è stato oggetto di contestazioni da parte dei suoi datori di lavoro o dei suoi superiori, la protezione sindacale è scattata puntuale e insuperabile, a prescindere dall’esistenza o meno di motivazioni effettive che la giustificassero. In Italia è stato per anni praticamente impossibile licenziare, anche quando ce ne sarebbero stati gli estremi. Mi è stato detto che gli operai di un grande stabilimento industriale, poi chiuso per gli eccessivi costi, avevano quasi tutti un secondo lavoro, a cui si dedicavano moltiplicando le assenze in fabbrica, con la compiacente copertura di certificati medici fasulli. E non è un caso isolato. Ma nessuno era in grado di toccarli. Protezione sindacale. Ora, proteggere i fannulloni può dimostrare il potere del sindacato e attirargli nuovi iscritti, ma non ha nulla a che vedere con la tutela degli interessi dei lavoratori, anzi è nocivo ad essi innanzi tutto.
Un recentissimo esempio viene dalla cronaca di alcuni giorni fa e riguarda il mondo della scuola. Nella provincia di Treviso, in un istituto tecnico, un insegnante è stato licenziato per acclarata incompetenza, sancita da una ispezione ministeriale. Il sindacato a gridare alla persecuzione. «Questo sistema mi spaventa perché attiva un clima di sfiducia, di tensione, di paura», ha detto il segretario provinciale della CGL scuola. Già. In Italia il problema è il clima di terrore per l’eccessiva severità nei confronti dei docenti… E infatti nel disegno di legge sulla “buona scuola” si è dovuto fare marcia indietro sul principio che il progresso nella carriera non può essere automatico, ma legato al merito. A protestare e ad ottenere l’annullamento di questa regola, ancora una volta, i sindacati. Sempre per evitare un clima di sfiducia, di tensione e di paura. Che poi a scontare l’incompetenza o il disimpegno degli insegnanti siano generazioni di poveri studenti, condannati a subire questa prevaricazione; che il bene comune sia irreparabilmente danneggiato da un sistema scolastico che non funziona anche per colpa di una categoria docente spesso inadeguata, tutto ciò non sembra importare molto ai dirigenti sindacali. È quello che intendevo quando parlavo di difesa del “posto”, a prescindere dal fatto che ad occuparlo sia una persona seria e competente o un incapace nullafacente. È così che si perde di credibilità.
Ed è un disastro, perché il sindacato è troppo importante perché ci si rassegnare a vederne declinare la funzione. Rischiamo di restare nelle mani di un capitalismo selvaggio, grazie a cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E in cui la crisi rischia di diventare un facile alibi per giustificare il sempre maggiore potere dei primi sui secondi. Non è propaganda comunista. Dal «Corriere della Sera» del 2 aprile 2012 abbiamo potuto apprendere che, secondo uno studio della Banca d’Italia, «nel nostro Paese basta il patrimonio dei dieci cittadini più ricchi per uguagliare quello dei tre milioni di italiani più poveri» e che «tra il 1987 e il 2008 la ricchezza familiare netta degli operai è passata dal 61,9% al 44% della media totale di tutte le classi. Mentre quella dei dirigenti è cresciuta dal 201,5% al 245,9%». E non c’era ancora la crisi!
Sì, abbiamo bisogno, oggi più che mai, dei sindacati. Per questo abbiamo il diritto di pretendere che tornino ad essere quello che devono essere.
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