Èdi qualche giorno fa la notizia che una bambina con sindrome di down è stata rifiutata dalla sua famiglia. La mamma è sparita e del padre nessuna traccia.
I giudici del tribunale dei minori di Napoli hanno avviato le procedure per l’adozione. Ma la bambina è stata ancora una volta rifiutata da sette coppie di genitori che si trovavano in lista d’attesa, ma che di certo non aspiravano ad adottare una bimba disabile. Le aspettative di solito sono altre; magari bionda con gli occhi azzurri, sana e intelligente.
Non credo che qualcuno di noi – abitante nella società dello scarto, indifferente e individualista – possa meravigliarsi e stupirsi della decisione delle sette famiglie e in primis dei genitori naturali della non scelta. Ciò che meraviglia e stupisce è che tra le varie richieste delle famiglie di adottare un bimbo senza problemi e in salute ha fatto capolino una richiesta diversa: quella di un single che vorrebbe dedicarsi ad accudire un piccolo disabile. Condizioni richieste? Nessuna. Un single, però, non è una famiglia e questo non lo renderebbe idoneo all’adozione.
La legge prevede delle eccezioni, e in questo caso un giudice ha avuto la possibilità di valutare il caso diversamente. Come riporta il Mattino, grazie alla legge 184 del 1983 (articolo 44), che norma le eccezioni alla regola ovvero quelle che riguardano orfani di padre e madre nel caso in cui con il single si sia instaurato un rapporto stabile e duraturo preesistente alla morte di un genitore, e in caso di un grave handicap.
Credo che questa decisione meriti attenzione ed è per questo che mi sento di ringraziare quest’uomo per il grande gesto di amore verso una bambina rifiutata perché non appartenente ai canoni richiesti per superare la sfida della nostra società.
Ma cosa e’ la disabilità e perché questi genitori che nessuno ha il diritto di giudicare hanno rifiutato la loro bambina?
La disabilità e’ un volto.
Ha il volto fragile e reale di tanti genitori che vivono ogni giorno la loro vita spesso nella solitudine. È il volto di tante coppie che non hanno più una vita sociale, è il volto del rimorso verso gli altri figli “sani” per non potere garantire loro una “normale” quotidianità .
La disabilità ha ancora il volto delle tante mamme / donne che lavorano e che vanno avanti nonostante siano state lasciate sole dai loro mariti nella gestione del bambino/a disabile, perché lui non e’ riuscito a guardare negli occhi il volto, lo sguardo che la disabilità ha.
Ma è anche il volto dei tanti papà che lottano in prima linea nelle associazioni e non solo. Sono le voci forti e determinate anche di coloro che di voce non ne hanno più, sono porti sicuri per le loro famiglie.
La disabilità rispecchia il suo volto nello sguardo dell’altro, di coloro che la sostengono, anche solo con un semplice “ci sono”; di coloro che scendono nelle piazze pur non avendo il volto della disabilità ma semplicemente lo sguardo carico di amore.
Ma si rispecchia troppe volte anche nello sguardo di coloro che hanno il volto del pregiudizio, dell indifferenza, del diniego degli aiuti economici, del silenzio delle nostre istituzioni, delle frasi come “meno male che non ho un figlio disabile…” di coloro che parcheggiano nel posto auto per disabili, che intralciano uno scivolo. Del non avere sostegno nella scuola inclusiva.
La disabilità ha il volto e lo sguardo impaurito delle famiglie che in ultimo si chiedono: che ne sarà del “dopo di me”?
A questo punto può la fragilità – come dice il titolo di un famoso libro di Alessandro D’Avenia – essere o meglio divenire un arte, in un mondo che ci vuole perfetti e dove l’arte di riparare non esiste più?
La fragilità è una parola che rimanda a qualcosa che si può rompere facilmente, qualcosa di delicato ma allo stesso tempo rimanda al valore alla sua preziosità: un oggetto tanto più è delicato tanto più è prezioso.
Viviamo in un mondo in cui siamo tutti connessi ma allo stesso tempo sempre più soli. Il volto sofferente, lo sguardo dell’ altro: disabile, migrante, povero, ultimo scarto della società non ci riguarda.
Ma se viviamo ripiegati sul nostro ombelico, sulle piccole sicurezze della vita quotidiana, senza guardare alla cometa che – quando ci raggiunge – apre davanti a noi sentieri carichi di tensione, ci perdiamo una parte della nostra vita, quella vera.
Lo sguardo verso la cometa ci permette invece di vivere in pienezza e fà si che i possibili incidenti di percorso non arrestino definitivamente il nostro cammino.
Penso ai pastori di Betlemme che una notte volsero lo sguardo al cielo; una cometa li guidò verso un bambino e lì trovarono e provarono stupore e meraviglia.
La fragilità ci permette di riconoscere la meraviglia.
Spesso l’uomo soffre non tanto perché vive delle situazioni dolorose, quanto, piuttosto, perché di esse non riesce a cogliere il senso.
Il volto e lo sguardo della bimba down daranno il senso ad un uomo che proverà a fare della fragilità sua e della piccola… un’ arte.
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