di Franco Monaco
È curiosa la dinamica della comunicazione. Spesso accredita una rappresentazione che si discosta dalla oggettività dei fatti e che, specie se reiterata, sedimenta luoghi comuni e semplifica a dismisura i giudizi. È il caso della tesi secondo la quale staremmo assistendo a un nuovo protagonismo politico dei cattolici dopo un tempo contrassegnato dalla loro marginalità. Chiedo scusa per l’approccio didascalico, ma merita isolare gli elementi di cui, letteralmente, si compone tale assunto.
Quale il tempo segnato dalla presunta marginalità politica dei cattolici? Secondo una facile vulgata, dopo la Dc e i suoi epigoni. Già a questo riguardo, si potrebbe introdurre un interrogativo. La Dc fu cosa grande e complessa. Alle origini, effettivamente, il suo gruppo dirigente, in larga misura, aveva alle spalle un’attiva militanza cattolica. Col tempo e il succedersi delle generazioni quella matrice si stemperò. Nel bene e nel male il personale politico Dc si professionalizzò e si laicizzò. E comunque, al di là dei singoli profili biografici, la effettiva qualità cristiana della sua ispirazione e della sua azione fu assai discontinua. A volte più evidente, a volte decisamente appannata. In breve: all’egemonia politica Dc non di necessità e sempre corrispose una vitale “significanza” cristiana.
Dopo la Dc, cattolici politicamente marginali? Ne siamo sicuri? Talvolta mi chiedo se, relativamente alla seconda Repubblica, non si possa sostenere l’esatto contrario. Si provi a mettere a paragone il peso tutt’altro che disprezzabile dei cristiani nella politica recente con la loro incidenza nell’economia, nelle professioni, nella cultura. Una minorità, quella dei cristiani, riscontrabile cioè più nella società che nella politica.
Del resto, i pastori più avvertiti della Chiesa italiana già nel dopo Concilio lo avevano lucidamente intuito, coniando slogan eloquenti: «Italia terra di missione», «Paese da rievangelizzare». Un’idea-forza che fece da asse portante della loro strategia pastorale. Se così era, e se così ancor più è, ai nostri giorni (un tempo nel quale un brillante educatore-teologo, in un suo fortunato saggio, ha definito i giovani come la «generazione incredula») semmai ci si deve sorprendere della sovrastima dei cattolici nell’arena politica. Nella cosiddetta seconda Repubblica taluni cattolici sono stati attori protagonisti, ancorché su opposti fronti e prescindendo da un giudizio di valore.
Si pensi alla partecipazione organica di Cl, e segnatamente di Formigoni in Lombardia, all’avventura berlusconiana; si pensi a Prodi e ai “cattolici adulti” prima con l’Ulivo e poi nella fondazione e nella vita del Pd. Nel quale figurano personalità che hanno avuto responsabilità di primo piano nell’associazionismo cattolico tradizionale, Ac, Acli, Cisl. Secondo uno studio recente dell’Swg, il voto dei cattolici praticanti va in maggioranza al Pd, partito che vede ben due cattolici tra le sue tre figure apicali (v. Adista Notizie n. 43/12). Eppure, stando a una certa lettura ecclesiastica, quei politici e quegli elettori cattolici è come se non esistessero. Appunto marginali o irrilevanti! Come del resto considerarono un alieno (marginale? irrilevante?) il cattolico Prodi alla presidenza del Consiglio.
Si accredita invece l’idea che, politicamente protagonisti, i cattolici lo sarebbero diventati d’improvviso solo oggi al seguito di Monti.
Sia lecito dubitarne. Sotto tre profili.
Primo: come testimoniano i convegni di Todi, se protagonismo c’è stato esso è stato attivato più dalle gerarchie ecclesiastiche che non dal laicato nella sua autonoma responsabilità politica espressa attraverso una fisiologica pluralità di orientamenti e di percorsi.
Secondo: il protagonismo attuale di personalità al vertice di talune associazioni cattoliche non rappresenta esattamente il variegato sentire politico della loro base, la quale non a caso ha manifestato disagio a fronte di una forzatura della tradizionale e statutaria autonomia di quelle associazioni. Peraltro, associazioni che non godono di buona salute neppure nei numeri, cioè attraversate da una crisi sia nelle adesioni che, più in radice, nella propria ragione sociale. Associazioni di cui si spendono le sigle sul mercato politico, ma ove la rappresentazione fa premio sulla reale rappresentanza. Ho il sospetto che la decisione assunta in solitudine da quelle personalità e senza particolari reazioni interne, che un tempo sarebbero state assai vivaci, attestino più la debolezza che non la forza di quell’associazionismo.
Terzo e più decisivo profilo: quello dell’ispirazione e del segno politico dell’operazione Monti alla quale quei cattolici si sono accodati. Un’operazione la cui impronta liberale e tecnocratica è assai lontana dalle sensibilità e dalle culture (pure al plurale) del cattolicesimo organizzato socialmente.
Un’operazione, per di più, lontana anche dalla forma politicamente matura del movimento cattolico, il quale, dopo Sturzo, ha sempre investitio sullo strumento partito (non contentandosi di improvvisati comitati elettorali) e sulla sua indole popolare. Per stare alle cifre interpretative consegnate alla storiografia del movimento cattolico, la formula dei cattolici che aderiscono a Monti richiama più il clericomoderatismo presturziano che non il cattolicesimo popolare e democratico. Piuttosto che un protagonismo politico dei cattolici, una subalternità ideale e pratica a disegni altri.
Dunque non un balzo in avanti, ma semmai un balzo indietro nell’evoluzione politica della coscienza cattolica. E persino uno scostamento da uno dei cardini della dottrina sociale della Chiesa, sorprendente in chi è rappresentato come un figlio prediletto e obbediente alle gerarchie che si sono tanto esposte nel sostegno a Monti: la distanza critica dall’ideologia liberale. Si legge nella Octogesima Adveniens: «Il cristiano non può, senza contraddirsi, dare la propria adesione… all’ideologia liberale che ritiene di esaltare la libertà individuale sottraendola ad ogni limite, stimolandola con la ricerca esclusiva dell’interesse e del potere, e considerando la solidarietà sociale come conseguenza più o meno automatica delle iniziative individuali e non quale scopo e criterio più vasto della validità dell’organizzazione sociale».
Come si vede, i criteri di misurazione del protagonismo politico dei cattolici sono un po’ più complessi di quanto non dia ad intendere una certa pubblicistica ossequiente all’establishment o anche semplicemente superficiale.
* Senatore Pd, impegnato nell’associazione “Città dell’Uomo”
Da Adista
http://www.adistaonline.it/?op=articolo&id=52402
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