Il 5 novembre si avvicina ed i cittadini siciliani, come si sa, quel giorno saranno chiamati alle urne per scegliere i loro rappresentanti; se per un verso il rilievo delle elezioni regionali per il futuro dell’isola è fin troppo ovvio, per altro verso, paradossalmente, il rischio di un elevato tasso di astensionismo è reale. In questo contesto, il Comunicato finale della Sessione autunnale della Conferenza Episcopale Siciliana sembra assai opportuno non solo perché in esso vengono individuate talune urgenze nei confronti delle quali si chiede ai candidati di rivolgere attenzione ed impegno, ma anche per l’invito alla partecipazione che i vescovi hanno voluto rivolgere al corpo elettorale. Su quest’ultimo punto si tornerà a breve.
Preliminarmente, è probabile che molti si chiedano – magari in modo critico – come mai la Gerarchia si “occupi” di politica; al riguardo, è possibile prendere in prestito le parole di Giorgio La Pira, il quale osservò che “l’affermazione secondo la quale il cristianesimo sarebbe indifferente alla politica e ai regimi sociali è una affermazione che […] è priva di senso” ed anzi è “anticristiana l’affermazione secondo la quale il cristianesimo dovrebbe restare indifferente ai regimi sociali”. Pertanto, “dire, quindi, che la politica è estranea al cristianesimo è dire una cosa radicalmente errata” (G. La Pira, La nostra vocazione sociale). Se a tutto ciò poi si aggiunge che – com’è a tutti noto – la politica è virtù a servizio del bene comune o, come disse Paolo VI, è la più alta forma di carità (precisamente, in Octogesima adveniens, 46, si legge: “la politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri”) non è arduo individuare come essa entri in contatto con la fede, l’una e l’altra potendosi anche alimentare vicendevolmente. Quanto ora detto, però, non contrasta in alcun modo con la considerazione che la Chiesa e la comunità politica sono da considerare realtà autonome e tali rimangono (cfr. Gaudium et spes, 76).
Muovendo da questi presupposti, è opportuno ricordare che l’“effettiva partecipazione” all’“organizzazione politica” (cfr. art. 3, II comma, Cost.) è un valore costituzionale che la Repubblica si impegna a tutelare rimuovendo gli ostacoli che ne impediscano l’attuazione (in funzione dell’eguaglianza sostanziale) e al quale, pertanto, un buon cittadino non può abdicare (si veda anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, 1913 ss. e il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 189 ss.); in altri termini, quindi, la partecipazione alla vita politica è da considerare un’obbligazione morale (Evangelii gaudium, 220). Chiaro, allora, è il rilievo del Comunicato in parola ed infatti la Gerarchia (ma, in generale, l’intera Chiesa, quale “popolo di Dio in cammino”), se è chiamata a disinteressarsi dell’orientamento politico dei credenti, il cui voto deve rimanere “libero” (art. 48, II comma, Cost.), non può che sentirsi profondamente interpellata dalla necessità che questi ultimi avvertano l’importanza di esprimere la propria preferenza. D’altra parte, non si trascuri che l’esercizio del voto “è dovere civico” (art. 48, II comma, Cost.); a tal proposito, in Assemblea Costituente si discusse sulla obbligatorietà del voto (non mancò la proposta – non accolta – di precisare che esso fosse da considerare addirittura un dovere morale).
In questo senso si indirizza proprio il Comunicato della CESI, che significativamente richiama s. Giovanni Paolo II quando a Catania disse: “Nel presente momento storico, non ci può essere posto per la pusillanimità o l’inerzia. Esse, infatti, non sarebbero segno di saggezza o di ponderazione, ma piuttosto di colpevole omissione” (e poco prima: “i tempi urgono e non concedono spazio all’attesa inerte, alla mediocrità timorosa”, passaggio quest’ultimo non riportato nel Comunicato qui più volte richiamato). La partecipazione, inoltre, non appare sufficiente se non accompagnata da un’adeguata formazione (ed auto-formazione), che favorisca il personale discernimento; si è dell’idea, infatti, che la partecipazione e la cultura costituiscano due “pilastri” della democrazia: la prima, per essere davvero tale (e quindi consapevole), non può fare a meno della seconda e quest’ultima quindi è funzionale alla prima (cfr. il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 190 s.). Da ciò dipende, in definitiva, quanto la democrazia può davvero attuarsi e, pertanto, sono da lodare quei Paesi che garantiscono una più ampia partecipazione alla gestione della cosa pubblica (v. Gaudium et spes, 31 e Catechismo della Chiesa Cattolica, 1915), mirando così al “progresso delle istituzioni” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1916).
Sembra adesso opportuno soffermarsi su uno dei principali problemi con i quali oggi ci si scontra e che il documento non manca di mettere in evidenza; esso consiste nella disaffezione, nella sfiducia, nel disinteresse alla politica, come se quest’ultima fosse qualcosa che non riguarda tutti i cittadini, ma sono una “élite”; in altri termini, per riprendere le parole che pronunciò Piero Calamandrei discutendo con gli studenti milanesi nel 1955, “l’indifferentismo alla politica” è una delle offese che possono farsi alla Costituzione, una vera “malattia”. Il problema di fondo, allora, è la sfiducia nei confronti delle istituzioni, che però è solo la conseguenza di una generalizzata mancanza di fiducia verso il prossimo. Come Chiesa “popolo di Dio” abbiamo allora “il dovere di trovare la fiducia perduta”, per richiamare il titolo di un articolo di Enzo Bianchi apparso su “La Repubblica” del 2 gennaio 2015; questo, infatti, appare un passaggio obbligato se davvero vogliamo contribuire a creare un nuovo umanesimo, dando seguito al lavoro svolto a Firenze nel 2015, al 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”). In sintesi – lo si ribadisce – “la gente ha bisogno di rigenerarsi alla fiducia” (così mons. G. Accolla, arcivescovo della Diocesi di Messina Lipari S. Lucia del Mela, il 7 gennaio 2017, nel giorno del suo insediamento). Anche la riguardo la Chiesa può svolgere un ruolo assai significativo.
Prima di concludere, non si sottovaluti poi il ruolo cruciale che riveste l’Assemblea Regionale Siciliana, specialmente se si considera che è dimostrato e dimostrabile che una più intensa tutela dei diritti fondamentali dei cittadini, spesso, viene maggiormente garantita dalla legislazione regionale che, nei limiti della separazione delle competenze con lo Stato, è in grado di meglio intercettare i bisogni del territorio e, quindi, dei cittadini stanziati in esso. A maggior ragione, pertanto, l’appuntamento del 5 novembre appare un’occasione troppo preziosa per “sprecarla”, costituendo uno snodo fondamentale per il presente e il futuro della nostra isola.
Com’è a tutti noto, il momento elettorale è cruciale per la rappresentanza politica; tuttavia la crisi dei rappresentanti, della quale tanto si discute, appare inevitabilmente collegata alla crisi dei rappresentati e solo percorrendo strade che consentano di uscire da quest’ultima sarà possibile cercare di ovviare anche alla prima. Ma questo è un discorso più ampio che non si può fare in questa sede.
Se, come si è visto, la fede è strettamente collegata al bene comune (che è l’“oggetto” della politica), ben si comprende che la fede e la decisione politica (e quindi anche la decisione di andare a votare e votare secondo coscienza, quest’ultima a sua volta illuminata dalla fede) non possano che essere connesse. L’augurio è allora quello che si possa davvero comprendere il valore del voto ed avvertire quella sana ambizione (che è sia anche esigenza) di voler offrire, anche in tal modo, il proprio piccolo (ma rilevante) contributo per la collettività; d’altra parte, per riprendere le parole di Francesco, “una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra” (Evangelii Gaudium, 183).
Lascia un commento