Il 7 novembre ricorre il 150° della nascita di Marie Curie (7 novembre 1867, Varsavia – 4 luglio 1934, Sancellemoz).
Maria Sklodowska, sposata Curie, è un personaggio la cui vita è stata tanto ricca e drammatica da diventare argomento di opere cinematografiche. L’ultima è Marie Curie: the courage of knowledge, una coproduzione di Germania, Francia, Polonia, della regista Marie Noëlle, uscita nel1916.
Marie Sklodowska Curie appartiene a due nazioni: polacca di nascita, visse la sua giovinezza sotto la oppressione della Russia zarista, in Francia svolse la sua opera scientifica e umanitaria. La giornalista Susan Quinn le ha dedicato una dettagliata biografia (Marie Curie. Una vita, Bollati Boringhieri, 1998). La sua Polonia, la scienza, la famiglia furono le passioni della sua vita.
Le fu assegnato due volte il premio Nobel (istituito qualche anno prima): nel 1903, insieme al marito Pierre, per la fisica (studi sulla radioattività) e nel 1911 per la chimica (scoperta del Polonio e del Radio). E’ stata l’unica donna a riceverlo due volte e in due discipline diverse, come protagonista della rivoluzione scientifica, che avvenne tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Fin dall’infanzia mostrò di possedere una prodigiosa memoria, capacità di concentrazione, curiosità intellettuale. Giunta a 24 anni a Parigi , unico luogo in cui una donna avrebbe potuto continuare gli studi, Marie Curie dedicò tutte le sue energie alla scienza, all’applicazione della radioattività e dei raggi X nella medicina, alla creazione di laboratori di studio della radioattività a Parigi e a Varsavia. In tutto il mondo la Giornata Mondiale della Fisica medica si celebra il 7 novembre in suo onore. Si può dire che la medicina nucleare deve i suoi inizi a Marie Curie e alla figlia Irène, anche lei premio Nobel per la chimica nel 1935, insieme al marito Frédéric Jioliot.
Viveva la sua ricerca scientifica, come si può vivere la dedizione ad una nobile causa, cui dedicarsi anima e corpo, con spirito quasi religioso, con la passione e la severità di chi vede quello che si è, capacità e risorse, non come strumento di ascesa sociale ma come un bene per tutti. Cattolica credente prima della morte della madre, perse la fede in quel tragico evento. Aveva dieci anni e per la guarigione della madre aveva scommesso la sua fede in Dio, come ci racconta la figlia minore Eve Denise.
La sua avventura matrimoniale fu intensa e tragica. Fu un’avventura d’amore e una storia di coppia assolutamente uniche. Marie e Pierre erano completamente sintonizzati sul loro lavoro, concepito come una missione, cui era lecito sottrarre tempo solo per le due figlie, per le escursioni in bicicletta e a piedi, per le vacanze con un gruppo di scienziati amici (una lunga lista con i grandi nomi della fisica, della chimica, della matematica francese). Il loro era un sodalizio scientifico intessuto di attenzione, tenerezza, condivisione di tutto, di lavoro massacrante. Col cognome del marito Marie volle firmare tutti i suoi articoli dopo il matrimonio.
Insieme non vollero mai brevettare il loro metodo di isolamento del Radio, perché pensavano che sarebbe stato tradire la loro vocazione. Una simile decisione non faceva parte del loro modo di concepire la scienza come bene sociale a disposizione di tutti. Pierre pensava solo alla ricerca e aborriva incarichi e riconoscimenti che lo avrebbero distratto dal suo lavoro. Pensava che solo rimanendo fedele alla sua vocazione di ricercatore avrebbe potuto portare un contributo al bene di tutti. Un anno prima di sposarsi Pierre scriveva a Marie: “Ci siamo promessi vicendevolmente (non è vero?) di avere l’uno per l’altro quantomeno una grande amicizia. Poiché non vi sono promesse che tengano; a queste cose non si comanda. Sarebbe comunque una cosa molto bella, alla quale non oso nemmeno credere, passare la vita fianco a fianco, persi nei nostri sogni: il vostro sogno patriottico, il nostro sogno umanitario e il nostro sogno scientifico. Di tutti questi sogni, credo che solo l’ultimo sia legittimo. Voglio dire che noi saremmo impotenti a cambiare l’ordine sociale, e se anche così non fosse, non sapremmo bene che fare: se muoverci in un senso oppure nell’altro, senza essere mai sicuri di non fare più male che bene, ritardando magari qualche evoluzione inevitabile. Dal punto di vista scientifico, al contrario, noi possiamo pretendere di fare qualcosa: qui il terreno è più solido e ogni scoperta, per quanto piccola, rimane acquisita.” (Agosto 1884).
A Varsavia a 17 anni Maria aveva aderito al progetto dell'”Università Volante”, un circolo di ragazzi e ragazze, fanatici patrioti, che cercavano nel positivismo la filosofia più adatta al loro desiderio di impegno sociale. A quel tempo Maria aveva già rifiutato ogni religiosità e riversato la sua sete di assoluto nella razionalità, nella fede nel progresso, nell’amore per la patria polacca. Verso la fine della sua vita, rievocando il tempo in cui, eludendo la polizia zarista, andava a istruire i dipendenti di una sartoria e metteva in piedi una biblioteca per gli operai, scriverà: «I mezzi d’azione erano poveri e i risultati ottenuti non potevano essere considerevoli; tuttavia, persisto nel credere che le idee che allora ci guidavano siano le uniche che possano condurre a un vero progresso sociale. Non possiamo sperare di costruire un mondo migliore senza migliorare gli individui» (cit. in Françoise Giroud, Marie Curie: Il primo Nobel di nome donna, Milano, Rizzoli, 1982, p.23).
Marie durante la prima guerra mondiale, dopo la morte di Pierre, si diede anima e corpo al soccorso dei feriti sul fronte, percorrendo con la figlia Irène le retrovie con le sue auto attrezzate con apparecchi a raggi X.
Quando morì Pierre, travolto da un carro che gli passò sulla testa, a lei, prima volta nella storia della Sorbona per una donna, fu assegnato il compito di continuare le lezioni del marito. Nelle aule della Sorbona si radunò una grande folla di curiosi, scienziati e ammiratori, oltre che le sue care alunne della Scuola Normale di Sèvres, per la sua prima lezione in sostituzione del marito. Marie non disse una parola in proposito, deludendo l’uditorio. Continuò la lezione dove il marito l’aveva interrotta.
La morte di Pierre fu per lei come una discesa agli inferi. Si chiuse in un cupo e disperato silenzio, riempito solo dal suo amato Radio, dalle sue allieve e allievi, dalle figlie. Sembrò tornare a vita durante la sua breve e contrastata relazione con l’amico fisico Paul Langevin. I ben pensanti parigini tolleravano che un marito avesse un’amante, purché non facesse scandalo pubblico. Marie, assediata dai giornali francesi, tornò a richiudersi nel suo silenzio.
Marie e Pierre vissero la loro vita di ricerca come monaci chiusi nelle loro celle, rifiutando onori inutili, chiedendo solo un laboratorio più comodo del capannone nel quale avevano sistemato i loro strumenti e dove, con un lavoro disumano e caparbio, Marie aveva isolato da tonnellate di Pecblenda meno di un grammo del nuovo elemento: il Radio. Col marito condividevano “l’emozione e il rapimento” che provocavano la luminosità dei “loro preziosi prodotti” concentrati in Radio, disposti su tavoli e mensole. Quando la sera andavano ad osservare i loro tesori “ci sentivamo assai felici”, scrive Marie nel suo diario.
Nelle foto d’epoca, scattate dopo la morte del marito, si vede una donna vestita di nero, una fronte larga, uno sguardo severo triste e assente, perduta in un presente per lei atroce. Si percepisce un grido muto e senza un destinatario, di un’anima rinchiusa nella disperazione: non si può non sentire come assenza inquietante una trascendenza negata. Silenzio contro silenzio!
Una foto del 1911 la ritrae al primo convegno internazionale Solvay a Bruxelles, unica donna in mezzo ad una accolta di scienziati tra i più famosi del momento. Accanto a lei Henri Poincaré indica qualcosa su una pubblicazione che lei scruta con attenzione. Stimata dagli scienziati europei e corteggiata dai giornalisti americani, si risolse a fare un lungo viaggio in USA con le figlie, solo per raccogliere fondi per potere dotare il suo laboratorio di un grammo di radio.
Non battezzò le figlie, ma non divenne mai anticlericale, anche se al momento della sua candidatura all’Académie des Sciences fu osteggiata dai cattolici tradizionalisti parigini, che le preferirono un docente dell’Institut Catholique. Non era nel suo stile battere il vento. La sua rinuncia alla religione era così profonda da non potere essere banalizzata da atteggiamenti anticlericali. Qualcosa della sua anima, per la morte della sorella maggiore, poi della madre e, più ancora, per la morte del suo adorato Pierre, era rimasta ferita senza possibilità di guarigione.
Ci sono non credenti che parlano e scrivono di Dio più dei credenti, atei che ingaggiano una lotta senza quartier con Dio, come il famoso matematico inglese G.H. Hardy. Marie, invece, aveva chiuso il discorso con Dio una volta per tutte.
Per Charles Darwin il viaggio di cinque anni sulla Beagle, in esplorazione delle isole e delle coste dell’Atlantico e del Pacifico, mise in dubbio quanto la Bibbia narrava nella Genesi. Ma l’evento decisivo fu la morte della figlia adorata Anna, a soli dieci anni. Si poteva credere in un Dio simile? E dov’era la provvidenza, tanto sbandierata nei sermoni degli uomini di chiesa? Ma non sembra che per Darwin questo evento luttuoso sia stato ciò in base a cui vivere il resto della vita. Per Marie Curie la morte della madre e quella del marito furono invece eventi catastrofici in senso letterale: un rivolgimento in profondità.
Nota la figlia Eve in una biografia della madre, scritta subito dopo la sua morte: “Zosia [è la sorella maggiore morta di tifo due anni prima della madre] è morta. La signora Sklodowska è morta. Privata della divina tenerezza materna, privata dalla protezione che le veniva dalla sorella maggiore, la bambina, senza mai lamentarsi, cresce in un relativo abbandono. È fiera, ma non rassegnata. E quando si inginocchia nella chiesa cattolica dove in altri tempi accompagnava sua madre, sente in sé una sorda rivolta. Essa non invoca più con lo stesso amore quel Dio che le ha ingiustamente inferito colpi così terribili, che ha ucciso intorno a lei l’allegria, la fantasia, la dolcezza” (Eve Curie, Vita della signora Curie, Mondadori, 1958, p.37).
A quegli eventi rimase fissata, come fosse una colpa dimenticarli, anche per un istante. La morte del marito fu come la definitiva convinzione che nei cieli non esisteva alcun Dio provvidente. Del marito non parlò più se non in un diario, scoperto dalle figlie dopo la sua morte e reso pubblico nel 1990. Con lui continuò a parlare come con una persona che era entrata tanto nella sua anima da non potere essere strappata da lei neanche dalla morte. In questo diario si rivolge al marito con un “tu” che non spera interlocuzione: «Ripeto il tuo nome ancora e per sempre: “Pierre, Pierre, Pierre, mio Pierre”. Ahimè, questo non servirà a farlo tornare, è andato per sempre, lasciandomi sola nel dolore e nella disperazione» (cit. Quinn, p.254). Nessun conforto per un possibile aldilà, nessun conforto nel mondo dei vivi.
Marie Curie morì a causa di una forma di leucemia, conseguenza della sua esposizione alle radiazioni dei materiali trattati senza alcuna cautela. I suoi quaderni di laboratorio sono ancora radioattivi e sono conservati in teche di piombo, la sua bara, trasportata con cerimonia solenne nel 1995 nel Panthéon parigino, è avvolta in un lenzuolo di piombo.
Nelle ultime pagine della sua biografia, Eve Curie cerca di sintetizzare in pochi aggettivi il temperamento di una madre che si sentiva in balia di una sensibilità che aveva deciso di “dissimulare il più possibile”: «Tale è la chiave d’una natura segreta, sensibile all’eccesso, timorosa, facilmente ferita: lungo tutta una vita gloriosa, Marie s’è vietata gli slanci spontanei, le confessioni di debolezza, le invocazioni d’aiuto che le salivano alle labbra» (Eve Curie, cit. p.378).
Mi è capitato di imbattermi in Marie Sklodowska Curie nei miei studi di storia della fisica. Confesso che mi ha turbato e mi ha ispirato, al contempo, rispetto per un’anima così sensibile al dolore, ferita crudelmente nei suoi sentimenti familiari. Un dolore trasformato in missione per la scienza, e per i malati il cui dolore la scienza può alleviare. Una ferita diventata vocazione.
Se posso permettermi di entrare in quest’anima, così gelosa della propria intimità, mi sembra di poter dire che mai mi era capitato di sentire con tanta forza l’assenza di Dio come un muto silenzio, che non invoca parola. Marie Curie non grida contro Dio come Giobbe, non si avventa contro di Lui con le armi della razionalità scientifica. Gira semplicemente la testa dall’altra parte, in un gesto di delusione che chiede giustizia e invoca una risposta da Qualcuno a cui, però, non si chiede più nulla.
La fedeltà alla fatica e al dolore degli uomini è stata la sua religione!
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