Nell’articolo “Cerco Dio solo” ho parlato della ricerca di Dio da parte di don Divo Barsotti, sacerdote, mistico, “il padre” in seno alla Comunità dei figli di Dio, da lui fondata nel 1947, di cui fanno parte laici consacrati, sposati e non, e monaci che vivono in piccole case di vita comune. A tutti i suoi figli spirituali egli ha proposto di vivere la “ricerca di Dio solo”, o, con un altro termine, un “monachesimo interiorizzato”, espressione questa che è stata resa celebre dalle opere del grande teologo russo P. Evdokimov, ma che sembra quasi necessaria per definire l’idea che Barsotti ha voluto realizzare nella sua comunità.
Per spiegare infatti le peculiarità del tipo di monachesimo pensato per i suoi figli, bisogna risalire ai tempi in cui don Divo era seminarista e si incontrò per la prima volta con la spiritualità dell’oriente cristiano.
Alla ricerca del “modo in cui rispondere a Dio”, il nostro padre segue un personalissimo percorso culturale, nel quale confluiscono le più svariate letture, non solo i Padri della Chiesa, i teologi ed i mistici, ma anche poeti e scrittori che “gli dicono” un’ansia dell’uomo “vuoto di Dio”. Conosce così Dostoevskij, Solovjov, Berdiaev. Nelle opere a sua disposizione in quegli anni, in particolare in quelle di Dostoevskij, trova un’assonanza con il suo proprio “sentire” che gli farà ripetere spesso che, nonostante già seminarista «non si era incontrato col Cristo» – «…ogni vita religiosa vera importa un incontro reale del Cristo» – e che si era “convertito” leggendolo. Scriverà: «Ebbi la percezione di quello che è il Cristianesimo nella sua profondità vera, nella sua esperienza drammatica e misterica.» Comprese che «la vita religiosa non è soltanto esercizio di virtù, una morale più o meno nobile e pura, è un avvenimento che rinnova tutta la vita, dona alla vita un nuovo orientamento, un nuovo contenuto: una ricchezza che neppure pensavi possibile prima che Egli entrasse nella tua vita. (…) Dio si servì anche di Dostoevskij per entrare nella mia vita».
I personaggi dello scrittore russo, non solo quelli religiosi come Zosima, Markel, Alioscia, Macario, Tichon, ma anche quelli che rifiutano Dio come Ivan Karamazov, Kirillov, Raskolnikov , gli parlano di Lui, gli rivelano un umanesimo cristiano in cui ogni cosa viene salvata: Dio non distrugge l’uomo, ma lo eleva alla perfezione. Attraverso i suoi personaggi Dostoevskij mostra che il Cristo è presente nella vita dell’uomo “nonostante tutto”. Il cuore dell’uomo redento da Cristo è come un “roveto ardente” in cui brucia la passione per l’Assoluto, nella solidarietà con tutte le creature. Tutto ciò trova eco nella naturale irruenza di carattere e sentimenti del giovane seminarista e la sua insofferenza per le forme esteriori della pietà gli fa intravedere nell’anima russa un modello da seguire, un clima a lui più congeniale. Inizia così, nei primi anni ’40, un appassionato approfondimento della esperienza religiosa della Russia ortodossa, in modo speciale attraverso il cristianesimo incarnato dai santi della Chiesa russa, fra i quali san Nilo di Sora, san Sergio di Radonez, san Serafino di Sarov. I caratteri peculiari di quel mondo religioso, con i quali don Divo si sente in sintonia, vengono così fissati nei suoi scritti che confluiranno nel suo volume “Cristianesimo russo”, il primo pubblicato in Italia sull’argomento. Nel testo, che non ha pretese di scientificità, Barsotti sottolinea come il ruolo centrale della mistica e della liturgia, già presente nell’esperienza religiosa bizantina, in Russia assuma dei caratteri suoi propri, di dolcezza, di semplicità: «questa pura dolcezza, questa umile semplicità, questa gioia luminosa». Ritiene che proprio la “terra russa” abbia influenzato la nascita di un preciso tipo di monachesimo: «non ci sono per il cristiano orientale due spiritualità distinte: l’unica spiritualità riconosciuta è quella monastica cui debbono uniformarsi, come possono, anche i fedeli rimasti nel mondo.» In Oriente non vi è differenza tra ascetica e mistica, perché «la mistica orientale ignora la dissociazione della vita spirituale dalla vita sacramentale: tutta la vita cristiana è immersa nella liturgia»; cioè la vita spirituale è principalmente il “vissuto” dell’uomo all’interno della liturgia e dei sacramenti. Il Mistero Pasquale, l’anelito alla bellezza, l’amore alla Vergine Madre ed il sentimento cosmico di una salvezza universale nel Cristo, la preghiera incessante, la paternità spirituale (propria dell’esperienza religiosa russa), sono tutti elementi della spiritualità russa che don Divo sente già propri.
Così, nel dare vita al cammino spirituale contemplativo della Comunità dei figli di Dio, il nostro padre don Divo, abbeveratosi intensamente, oltre che alla spiritualità propria della tradizione cristiana occidentale anche alla spiritualità cristiana orientale, ha potuto trasferirvi quella ricchezza che è al tempo stesso una straordinaria proposta ecumenica; possiamo dire infatti che egli abbia aperto in modo sperimentale, nella vita della sua comunità, una strada per quella Chiesa che più tardi Giovanni Paolo II avrebbe definito “a due polmoni”.
D’altronde don Divo ha sempre vissuto come una ferita la mancanza di unità all’interno della Chiesa di Cristo: la Chiesa è il Corpo di Cristo, dunque è “ontologicamente una” come il Cristo è uno, non può essere divisa se non nella cultura, nei riti…; ma anche la diversità delle vocazioni all’interno del cristianesimo va ricondotta all’unità dell’unica chiamata ad essere figli nell’Unico Figlio. Da qui nasce la proposta – più orientale che occidentale – di una spiritualità contemplativa per tutti, così come avveniva all’inizio della cristianità: anche allora era vissuta in tutti gli stati di vita e in tutte le condizioni, da uomini e donne, senza separazione tra vita attiva e vita contemplativa, perché non esiste l’una senza l’altra, esiste solo la vita cristiana.
La vita proposta ai membri della Comunità è una vita teologale, senza bisogno di opere particolari o delle mura protettive di un monastero, anzi proprio il fatto che la Comunità non abbia opere proprie vuol significare che “l’opera” è unicamente il vivere una disponibilità totale ad un rapporto personale, concreto, vivo, con la Persona di Dio, che è il Padre, che è il Figlio, che è lo Spirito Santo, di modo che, spontaneamente, questa esperienza di Dio possa traboccare in tutte le esperienze e relazioni umane e così raggiungere tutti.
In effetti la vocazione alla vita contemplativa è, o dovrebbe essere, universale come la vocazione alla santità: aspirazione a “vedere Dio”, non in un luogo “altro”, ma nella nostra vita ordinaria, con semplicità, ognuno vivendo la sua vita, rimanendo nel luogo in cui il Signore lo ha messo, in umiltà e pace. Si tratta dunque di “interiorizzare” lo spirito monastico, slegandolo da forme esteriori perché la missione di ciascuno di noi sia fare della propria vita, nel mondo di oggi così povero di Dio, un «segno della presenza di Dio».
Per far sì che nulla leghi il nostro spirito e nulla lo trattenga nel cammino verso Dio, non s’impone alcuna rottura dei rapporti umani, piuttosto si vuole rispondere alla chiamata divina proprio attraverso il rapporto con gli altri, attraverso l’impegno di un lavoro, la vita in famiglia o da soli, ma nel mondo, riconoscendo che proprio la risposta cristiana alle istanze molteplici e complesse della vita nel mondo può scioglierci dai nostri egoismi: “restando nel mondo” rispondere al “Vieni e seguimi” di Gesù nelle prove quotidiane. Proprio questo ci deve mantenere sempre in cammino.
La nostra consacrazione ci impegna così ad affermare il primato di Dio vivendo quotidianamente la preghiera liturgica, la partecipazione all’Eucaristia, la meditazione della parola di Dio. Il ritiro mensile e la partecipazione agli esercizi spirituali annuali rinnovano l’impegno; la vita di comunione all’interno della famiglia religiosa sostiene e ravviva lo spirito monastico, il “cercare Dio solo” in tutti gli aspetti della realtà. Il silenzio, la solitudine, le difese del monastero di solito sono elementi necessari per una vita contemplativa: nelle vicissitudini di una vita ordinaria, solo con l’aiuto della vita di una comunità di anime, il singolo “cercatore di Dio” può giungere a rendere interiore il suo silenzio, spirituale la sua solitudine. Infatti gli incontri di formazione e soprattutto gli Esercizi spirituali ricaricano l’anima per la missione nel mondo e purificano dalle scorie della vita quotidiana, perché “siamo ancora nel mondo ma non siamo del mondo” (Gv 17,11-14).
Soprattutto la preghiera sarà il nutrimento della vita interiore, una preghiera alimentata dalla lectio divina e quindi da una continua formazione biblica. Bisogna imparare ad ascoltare Dio se si vuole rispondergli e questa scuola dura tutta la vita.
Si moltiplicano le espressioni con cui don Divo ci sprona a seguire questa strada impervia, ma salutare per noi stessi e per quanti ci circondano:
«La nostra missione sarà anche “profetica”, potrà manifestare cioè l’azione dello Spirito divino nella vita di ciascuno, una presenza attiva di Dio nel cuore dell’uomo e della Chiesa una. Vivere soltanto per Iddio ma nel contatto continuo con gli uomini, senza sentire nessuno a noi estraneo, volendo piuttosto tutti assumere in noi, partecipando a tutta la loro vita. Di Dio principalmente l’uomo ha fame e la Comunità si propone di rispondere in una forma nuova, lasciando appunto i suoi consacrati a relazionarsi con le realtà, le strutture economiche e sociali proprie del mondo moderno.
Vivere una vita contemplativa vuol dire così certo trascendere il mondo ma per portarlo dentro di sé, importa perciò che oggi noi viviamo quello che vive la Chiesa e insieme quello che vive il mondo. Il contemplativo non può chiudersi nel suo piccolo mondo, anzi proprio perché si propone di essere contemplativo deve acquisire le misure stesse della divina carità e tendere a Dio trascinando con sé tutto il mondo umano in cui vive. La solitudine dell’anima è il seno di Dio in cui bisogna portare l’universo. Questo è possibile se si vive come anime oranti, mantenendoci in un colloquio incessante con Dio che ci salva dal dire e dal dare a chi ci sta accanto noi stessi piuttosto che Lui.
È richiesta certamente una grande umiltà ma una volta che, con la consacrazione, è avvenuto il nostro trasferimento nella proprietà del Signore, è Lui che compie l’opera Sua»
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