VANGELO#2, di Virgilio Sieni e Mimmo Cuticchio, è un progetto di ricerca sulla relazione tra arte del gesto e opera dei pupi che si inserisce nel più ampio progetto triennale Palermo_Arte del gesto nel Mediterraneo, promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo. Attraverso un percorso di azioni coreografiche interpretate da danzatori, attori, cittadini di ogni età e provenienza che hanno partecipato ai laboratori tenuti da Mimmo Cuticchio, Virgilio Sieni e Giulia Mureddu, Vangelo#2 si è snodato in una geografia di luoghi-simbolo della città e articolato in diverse azioni ispirate all’immaginario simbolico della narrazione biblica: Atlante, interpretato dagli stessi Cuticchio e Sieni, nello Spazio Tre Navate ai Cantieri Culturali alla Zisa; la Trilogia dell’Esodo nella Chiesa San Giorgio dei Genovesi, l’Oratorio Santa Cita e l’Oratorio SS. Rosario in San Domenico; la Trilogia della Sosta a Palazzo Abatellis – Sala delle Croci e Sala del Trionfo della morte – e a Piazza Croce dei Vespri, nella sede della Ditta Salvatore Parlato. Il progetto Dialoghi, inoltre, dal 30 novembre al 3 dicembre 2017 ha proposto incontri, installazioni e lezioni sul gesto. (Fotografie di Alessandro d’Amico)
Con ATLANTE, Virgilio Sieni e Mimmo Cuticchio danno il via al ciclo di performance e azioni coreografiche e segnano la grammatica dei gesti fondativi che via via ritracceremo nel percorso di ricerca di Vangelo#2. Nel nudo spazio dello Tre Navate – senza elementi scenici, senza sfondo sonoro, quasi senza luci – danzatore, puparo e pupi ingaggiano un inedito dialogo motorio tra corpi e marionette: il danzatore dispiega tutta la sua sapienza corporea per ricercare incessantemente la gestualità del pupo, amplificandola, riducendola, facendone infinite variazioni tra cadute e ascese, accelerazioni e improvvisi arresti; il puparo, nel doppio legame che lo unisce alla marionetta – al suo servizio e onnipotente artefice dei suoi movimenti e della sua voce – con la sua possente figura epica domina la scena; il pupo, piccolo e nudo, dapprima giace al suolo inerme, poi, quando si anima, è lui a dettare la misura e la qualità dei movimenti. In scena, umano e rappresentazione dell’umano, corpo e oggetto, danno vita a un gioco di ruoli e rispecchiamenti che esalta ed evidenzia peculiarità e differenze. Quando il puparo inizia il racconto della passione di Orlando per la bella Angelica, dell’amore della fanciulla per Medoro, il soldato saraceno rivale, della folle gelosia di Orlando e dell’impresa di Astolfo che in groppa all’ippogrifo va sulla luna a riprendere il senno del paladino, la narrazione, decontestualizzata dalla tradizionale cornice del teatro di pupi, assume una colorazione straniante. Poi, in un progressivo scivolamento delle parti che incominciano a sfumare una nell’altra, a intrecciarsi, a ruotare come in una folle girandola, il pupo diventa umano, il danzatore diventa pupo e puparo, il puparo danza.
Venerdì, nella Chiesa di San Giorgio dei Genovesi, Esodo 1 dà inizio alla prima tappa della TRILOGIA DELL’ESODO. Come una umanità sperduta dopo un catastrofe, come in un day after, una massa desolata fatta di uomini, donne e pupi avanza tra cadute e risalite: un corpo collettivo che si sostiene e si soccorre con quella umanità che si risveglia nelle situazioni estreme di catastrofe. I pupi, così minuti, così impediti e dipendenti, rallentano l’esodo ma, con piccoli gesti compassionevoli, anche loro sembrano portare conforto ai corpi che giacciono al suolo. La sostanza di cui sono fatti gli uomini si trasmette ai pupi; quella dei pupi agli uomini: se a cedere sono i fili del pupo, anche le articolazioni dell’uomo cedono facendolo accasciare al suolo. Lo sfondo sonoro – un mix di sospiri, di lamenti soffocati e un suono, ora secco ora metallico, di pupi che strisciano sui bassorilievi marmorei del pavimentazione – rende la schiera ancora più dolente.
Come in processione, il gruppo di spettatori si sposta verso l’Oratorio Santa Cita – Esodo 2. Qui, quasi a fare da contraltare alla caotica folla di angeli e di putti e al biancore degli stucchi, nella luce fioca dell’oratorio, i danzatori si muovono con gesti sincroni secondo precise geometrie ed entrano in relazione con la sola testa dei pupi – quasi una mutilazione – che seguono la stessa simmetria di movimenti, in una sequenza ritmica dall’andamento ipnotico.
Nella penombra dell’Oratorio del SS. Rosario in San Domenico (Esodo 3), ai danzatori si uniscono dei performer che, con piccole torce – quasi dei tedofori – illuminano i movimenti scenici con deboli fasci di luce che fanno baluginare le decorazioni d’oro di stucchi e dipinti. L’esodo, un moto perpetuo di incessanti attraversamenti dello spazio, è intervallato da soste durante le quali si compongono figure dell’iconografia cristiana: annunciazioni, sacre famiglie, deposizioni, pietà, ascensioni.
Sabato, la TRILOGIA SULLA SOSTA, alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, riprende i temi della Deposizione, dell’Annuncio e della Fuga in Egitto. A interpretare le azioni e i movimenti scenici, esito del percorso laboratoriale, sono semplici cittadini: solo corpi di uomini e donne, questa volta, senza il confronto con l’alterità della marionetta. Le musiche di Giovanni Damiani eseguite dal vivo accompagnano, danno forza e senso alle azioni coreografiche.
La prima azione – Deposizione – va in scena nel Salone delle Croci: tra le due grandi Croci lignee dipinte del XV secolo e altri oggetti scenici poveri (assi, ceppi, sedie) i performer compiono movimenti scenici confrontandosi con le potenzialità e i limiti del loro corpo, con il sostegno che i compagni di viaggio danno, con gli ostacoli e con gli appoggi che incontrano lungo il percorso. E se l’appoggio manca, si stramazza a terra. E allora, con gesti pietosi, si soccorrono i caduti, si sollevano come cristi in una deposizione.
La seconda azione – Angelologia/Il silenzio delle ossa – si svolge nello spazio antistante il Trionfo della morte. Qui la scena rappresenta due corpi bloccati al suolo da due grandi ali, a formare un unico essere alato, un Icaro abbattuto. Quello che è accaduto, lo spettatore può immaginarlo come in un flashback: una tensione a sollevarsi in volo, un volere andare oltre e poi la caduta, un precipitare, un ritrovarsi al suolo con le ali che dovevano portare verso l’alto divenute un fardello invalidante. Angeli caduti e testimoni della caduta, accomunati dalla stessa condizione, sono attoniti e sconfitti: il volo è un’utopia, il restare al suolo un destino. Insopprimibile rimane la tensione al volo, quella che ha reso l’uomo umano. Sullo sfondo, a incombere sulla scena, la Morte in groppa allo spettrale cavallo scheletrito con tutto l’immaginario di finitezza, di perdita e di sofferenza ad essa legato.
Per l’ultima stazione – Fuga in Egitto/Dimore – gli spettatori, come in una processione, ancora dentro la liturgia, si spostano a Piazza Croce dei Vespri per raggiungere l’antico palazzo dove ha sede la Ditta Salvatore Parlato. Nello storico negozio di tessuti, le azioni coreografiche che richiamano il tema della fuga in Egitto, della sosta e del riposo, si articolano tra i diversi ambienti adibiti all’esposizione e alla vendita, tra banconi, pile di stoffe, scaffalature stipate di tessuti e corredi per la casa. In un luogo quotidiano, prosaico e mercantile, fuori dal circuito dell’arte e del sacro che ha caratterizzato la geografia dei luoghi fin qui toccati (anche se non mancano oggetti d’arte come i soffitti affrescati, i monumentali lampadari di Murano o i preziosi paramenti sacri incorniciati alle pareti), il senso della progetto emerge in tutta la sua potenzialità trasformativa. Quando luoghi d’arte e di mestieri si aprono e vengono abitati da corpi altrettanto abitati; quando i linguaggi fluiscono e si lasciano incontrare e contaminare; quando gli esodi, gli approdi e le soste non sono soltanto parole o cognizioni ma vengono incarnati, iscritti sulla pelle; quando ad entrare in contatto con le opere d’arte è la totalità sensoriale e psico-corporea della persona, forse la realizzazione di quella Politica della bellezza di cui parlava James Hillman, dove la bellezza non è solo accessorio estetico ma fattore di trasformazione di una polis in comunità relazionale e dialogica, anche a Palermo è possibile.
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