Alla vigilia del Capodanno, il quadro che emerge dalle cronache mondiali e locali è univoco: i ricchi diventano sempre più ricchi e rafforzano i loro privilegi, i poveri sempre più poveri e non danno l’impressione di potersi difendere.
A livello planetario, già nel 2016, 8 uomini, da soli, possedevano 426 miliardi di dollari, la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia 3,6 miliardi di persone. L’Italia non faceva eccezione se, stando ai dati del 2016, l’1% più facoltoso della popolazione aveva nelle mani il 25% della ricchezza nazionale netta. Ora, proprio in questi giorni, è stata resa nota dal Bloomberg Bilionaire Index la notizia che, nel 2017, il patrimonio dei 500 uomini più ricchi al mondo ha raggiunto 5.300 miliardi di dollari, con un aumento di ben mille miliardi di dollari rispetto al 2016 (+23%, quasi un quarto in più!).
In testa Jeff Bezos, fondatore e numero uno di Amazon, il colosso mondiale del commercio su internet, che pochi giorni fa è stata oggetto di un’inchiesta del «New York Times» riguardo alle condizioni di lavoro dei dipendenti: turni di lavoro sfiancanti, spesso con 8 ore in piedi, per un totale di 80 ore settimanali; ossessione della velocità; tempi brevissimi per la pausa pasto e conteggio dei minuti trascorsi in bagno; controlli elettronici per evitare furti e perdite di tempo; stress e continuo ricorso agli psicofarmaci… È così che Bezos, nel 2017, ha potuto guadagnare ben 34,2 miliardi di dollari.
Certo, ci sono, tra questi miliardari, anche coloro che – come Bill Gates, il fondatore della Microsoft, e Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook – vogliono dare in beneficenza una parte consistente del loro patrimonio. Ma è una scelta personale: il meccanismo dell’arricchimento sfrenato di pochissimi non ne viene minimamente ridimensionato.
Il problema riguarda anche l’Europa. La logica della de-localizzazione delle industrie si fonda sulla possibilità di ridurre i costi di produzione approfittando della minore protezione sindacale dei lavoratori di Paesi ancora in via di sviluppo. Così, per esempio, l’Ucraina, la Serbia, l’Ungheria, costituiscono oggi un paradiso per le multinazionali della moda, che qui possono trovare manodopera qualificata a bassissimo costo. Recentemente, in un rapporto della Clean Clothes Campaign (Campagna Abiti Puliti ), si denunciava lo sfruttamento economico delle lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento e delle calzature in queste nazioni. Un’operaia in Ucraina guadagna 89 euro al mese e, anche se i prezzi sono più bassi, secondo gli osservatori un tenore di vita decente ne richiederebbe cinque volte di più. Le fabbriche citate nel rapporto producono tutte per importanti marchi globali: tra questi troviamo Benetton, Esprit, GEOX, Triumph e Vera Moda. Tra i grandi marchi italiani, lusso compreso, figurano anche Armani, Calzedonia, Dolce & Gabbana, Ermenegildo Zegna, Golden Lady, Gucci, Max Mara, Prada e Versace.
Su questa linea si pone anche la sempre più decisa opposizione dei Paesi europei all’accoglienza dei migranti. Ultima è arrivata, in questa vigilia di Capodanno, la dichiarazione del nuovo cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, a sostegno dei governi dell’UE che rifiutano di ospitare una quota dei nuovi arrivati. Peraltro, anche il nostro Paese – che pure finora è risultato il più accogliente – stipulando l’accordo con la Libia per impedire le partenze, ha fatto credere di aver risolto la questione, fino a quando non si è scoperto – ma lo si poteva sapere fin dall’inizio! – che il sistema adottato dalle autorità libiche consiste nel tenere chiusi i disgraziati – giunti fin là, attraverso mille peripezie con la speranza di partire per l’Italia – in veri e propri lager, dove sono sottoposti ad ogni specie di soprusi e di violenze. “Operazione Ponzio Pilato”. E che aria tiri per il futuro lo dice il boicottaggio della legge sullo ius soli, arrivato anch’esso alla vigilia di Capodanno, da parte dei partiti ampiamente favoriti per la prossima consultazione elettorale, Forza Italia, Lega e 5stelle.
Un ultimo spaccato, stavolta in scala regionale, di questo tempo di festosa attesa del Capodanno, riguarda la Sicilia, dove il neo-presidente dell’Assemblea regionale, Gianfranco Miccichè, – da sempre proconsole di Berlusconi nell’Isola – ha fatto un discorso di insediamento in cui, accanto agli ampi e generici auspici di rinascita per il popolo siciliano, l’unico elemento concreto è stata la promessa ai deputati e ai funzionari regionali di non rinnovare, quando scadrà, con l’anno nuovo, il tetto di 250.000 euro alle loro retribuzioni. Una dichiarazione che ha fatto infuriare almeno un siciliano, l’appena nominato assessore all’Energia e ai Servizi di pubblica utilità, Vincenzo Figuccia, dimessosi per rispetto, ha detto, di tutta «la gente che ha creduto in un’azione di cambiamento e di discontinuità» e le cui aspettative sono smentite da dichiarazioni come quelle di Miccichè, «che ledono la dignità dei cittadini siciliani» e «consegnano un’immagine inopportuna e distorta» del nuovo corso, che avrebbe dovuto essere inaugurato con il nuovo governo.
La risposta della maggioranza è stata, almeno in questo caso, esemplarmente compatta: «Vorremmo consigliare all’assessore Figuccia» – si dice in una nota dei capigruppo di Fratelli d’Italia, Udc, Forza Italia, Popolari e autonomisti e “Diventerà Bellissima”, che sostengono il governo Musumeci – «di impegnare le sue energie in modo prevalente se non esclusivo all’attività amministrativa di governo, nei settori delicati che gli sono stati affidati, evitando di alimentare polemiche strumentali su argomenti che non sono all’ordine del giorno dell’Assemblea regionale siciliana».
Non voglio entrare nel merito della questione economica, che probabilmente è più complessa (la scadenza del “tetto” per l’Assemblea regionale è giuridicamente legata a quella dell’analogo limite per il Senato e dunque il problema si pone a livello nazionale). Ma, in una regione che assiste allo sfascio della sua economia, alla fuga irrefrenabile dei suoi giovani più qualificati, alla cronica inefficienza della pubblica amministrazione, mettere in primo piano, nel discorso che dovrebbe segnare la “svolta”, il problema delle retribuzioni dei deputati e degli amministratori regionali è, quanto meno a livello simbolico, uno schiaffo alla gente e alla logica del bene comune. Che del resto non meraviglia troppo, essendo il neo-eletto presidente dell’Assemblea un protagonista del progressivo disastro politico-economico dell’Isola durante questa Seconda Repubblica. Ma che conferma – all’interno di un micro-sistema qual è, rispetto al pianeta, la Sicilia – il trend che segnalavo all’inizio e che ci fa arrivare a questo Capodanno con una grande mestizia nel cuore.
Meno male che almeno una voce, quella di papa Francesco, ultimo profeta, continua a gridare nel deserto, sia pure tra insulti e contestazioni (com’è tipico dei profeti). E che, mentre il sistema neocapitalistico o i gruppi di potere locali ostentano il loro trionfante dominio, rimangono sempre, anche se nascosti, dei focolai di resistenza, in cui ancora ci si rifiuta di arrendersi alla logica del “tutto va bene”. Vorrei che ci ricordassimo di loro quando, alla mezzanotte di Capodanno, nell’euforia generale di tanti che preferiscono stordirsi per non pensare, troveremo ancora il coraggio di augurarci a vicenda “anno nuovo, vita nuova!”.
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