Com’è noto a chi abbia seguito la cronaca degli ultimi giorni, la stilista e scrittrice Marina Ripa di Meana, poco prima di morire, ha lanciato un drammatico appello affinché si sapesse che, in Italia, esiste la possibilità di ricorrere alla cosiddetta “sedazione terminale” come alternativa all’eutanasia e al suicidio assistito. Ne è scaturito un acceso dibattito sull’effettiva natura di questo intervento medico, da alcuni visto come una forma mascherata di eutanasia illegale, da altri come una normale e legittima terapia del dolore nella fase terminale di una patologia.
Nonostante la stampa ne discuta da quasi un mese, rimane l’impressione che la “sedazione terminale”, detta anche, più propriamente, “sedazione profonda”, sia ancora un oggetto misterioso, ostaggio dell’ennesimo scontro fra la fazione pro-eutanasia, a favore del diritto di scelta del paziente, e quella contro l’eutanasia, che rivendica invece il dovere di astenersi da ogni azione o omissione che possa provocare intenzionalmente la morte del malato. Come spesso accade in casi simili, quando si è troppo preoccupati di sostenere una posizione, si assume, nei confronti dell’oggetto della contesa, un atteggiamento scorretto, che consiste nell’enfatizzare solo gli aspetti che tornano utili al proprio punto di vista, lasciando in ombra tutti gli altri. Nel nostro caso, l’errore comune a entrambi gli schieramenti consiste nel voler definire a priori la natura di un trattamento che, al contrario, può essere valutato solo considerandone, di volta in volta, le circostanze cliniche concrete, il modo di somministrarlo, e, soprattutto, l’intenzione dei soggetti che vi fanno ricorso. Che cos’è realmente la sedazione terminale? È davvero, com’è stato detto da alcuni, la “via italiana” all’eutanasia, o, come hanno replicato altri, non ha nulla a che vedere con la dolce morte?
Partiamo da un dato condiviso da tutti, ossia l’importanza e l’irrinunciabilità delle cure palliative. Il principio di fondo della medicina palliativa, che ha trovato una consacrazione legale in Italia con la legge 38/2010, è che dopo aver esaurito tutte le possibilità terapeutiche, anziché ostinarsi a respingere una morte inevitabile con un dispiegamento di interventi e di mezzi tanto inutili quanto onerosi, occorre privilegiare la qualità dell’assistenza al malato e ai suoi familiari. Anche quando il medico non può più guarire la malattia, infatti, deve comunque prendersi cura del malato. E oggi può farlo con opportuni interventi che consentano di alleviare le sue sofferenze, garantendogli, per quanto è possibile, una morte serena e dignitosa.
In determinate situazioni, questo piano di cura prevede anche la cosiddetta “sedazione terminale”, il cui scopo specifico, come spesso si afferma, non è di “far morire” chi è ancora vivo, ma di “far dormire” chi sta morendo, risparmiandogli le sofferenze altrimenti che accompagnano gli ultimi giorni di agonia. Visto il carattere irreversibile che può assumere, la sedazione profonda deve essere somministrata solo dopo un’attenta e prudente valutazione delle condizioni cliniche e psicologiche del paziente. Secondo un parere pubblicato nel 2016 dal Comitato Nazionale per la Bioetica, tali condizioni sono le seguenti: 1) una malattia inguaribile a uno stadio avanzato; 2) una morte imminente; 3) la presenza di sintomi refrattari o di eventi acuti terminali con sofferenza intollerabile; 4) il consenso informato del paziente, dov’è possibile ottenerlo, o, in caso di incapacità, dei suoi familiari.
Com’è risaputo, in molti casi il processo che conduce alla morte un malato cronico è lento e doloroso. Se il paziente chiede che i suoi dolori siano alleviati con gli opportuni rimedi, le possibilità di intervento sono generalmente due, legate alla situazione specifica del paziente: a) la somministrazione discontinua e periodica di analgesici, con alterne fasi di lucidità e appannamento della coscienza; b) la somministrazione continua e progressiva di sedativi, al limite fino alla perdita della coscienza e al rischio di arresto cardiaco (appunto la “sedazione terminale”). Ora, poiché con l’approssimarsi della morte il dolore spesso aumenta e poiché alcuni degli analgesici usati nelle fasi terminali producono assuefazione, per garantire la loro efficacia è necessario aumentarne la dose. Al paziente può dunque essere proposto di incrementare le dosi, benché ciò possa comportare, come effetto collaterale, anche la morte. Spesso il malato e i familiari accettano e, dopo qualche giorno di terapia del dolore, può sopraggiungere la morte per l’effetto combinato della patologia e dei farmaci somministrati. L’aggettivo “terminale” associato al sostantivo “sedazione”, in tal senso, è decisamente ambiguo, perché può riferirsi sia alla prognosi di pochi giorni di vita rimasti al paziente, sia al possibile effetto letale della stessa sedazione.
Che in determinate circostanze cliniche la sedazione possa avere, oltre all’effetto di alleviare il dolore, anche quello di abbreviare la vita, dimostra che quanti la ritengono un’eutanasia camuffata non abbiano del tutto torto. Dipende dall’uso che ne facciamo e dalle intenzioni che abbiamo. Certo, di per sé la sedazione terminale non ha lo scopo di porre fine alla vita del paziente, poiché i farmaci utilizzati – principalmente la benzodiazepina, ossia il farmaco utilizzato per le anestesie, e molto raramente la morfina – non sono somministrati in dosi letali, ma in una dose proporzionata al controllo del dolore. La sedazione, come si diceva, non ha lo scopo di far morire il paziente, ma di assopirne la coscienza per alleviare le sue sofferenze. Va precisato, a tale proposito, che quando l’European Association of Palliative Care, in un documento spesso citato in questi giorni, afferma che la sedazione terminale non va confusa con l’eutanasia perché la durata media della sopravvivenza dei pazienti sedati in fase terminale non è sostanzialmente diversa da quella di pazienti non sedati, si riferisce all’uso esclusivamente palliativo della sedazione. La sedazione terminale, tuttavia, può essere utilizzata non soltanto per alleviare il dolore, ma anche per anticipare la morte. Magari giocando sulla difficoltà di distinguere fra un decesso dovuto alla patologia di cui il paziente già soffre e quello indotto dalla progressiva somministrazione di farmaci, soprattutto quando è presente anche morfina.
Tocchiamo qui il punto decisivo, che ci consente di capire sia perché la sedazione profonda è contesa fra i sostenitori dell’eutanasia e i suoi critici, sia perché non si può stabilire a priori che ad aver ragione siano i primi piuttosto che i secondi. Stiamo infatti parlando di un’azione che comprende sia l’elemento sostanzialmente eutanasico enfatizzato dagli uni (abbreviare la vita), sia quello esclusivamente palliativo accentuato dagli altri (sedare il dolore).
Una possibile indicazione per fare chiarezza proviene dallo stesso Codice di deontologia medica (2014) – stranamente quasi mai citato nel dibattito di questi giorni – , in cui, dopo aver precisato che «il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocare la morte» (art. 17), si ammette che «i trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica» possono essere «attuati al fine esclusivo di procurare un concreto beneficio clinico alla persona» (art. 18). Quando dunque produce due effetti distinti, da una parte l’alleviamento dei dolori e dall’altra un’abbreviazione della vita, la sedazione è lecita, a condizione che i vantaggi dell’effetto positivo compensino gli inconvenienti di quello negativo. E se il compito del medico non è di prolungare la vita “a ogni costo” ma di guarire e di alleviare il dolore, allora di fronte a un malato inguaribile e terminale è lecito e ragionevole combattere il dolore anche a costo di abbreviare la vita.
Discutendo questo aspetto, gli studiosi di bioetica parlano di “azione a duplice effetto”, e si chiedono a quali condizioni può essere lecito compiere un’azione che ha sia un effetto positivo (sedare il dolore) sia un probabile effetto negativo (provocare la morte). Il dibattito di questi giorni sull’effettiva rilevanza morale e medico-legale della sedazione profonda dipende da questa specifica difficoltà: capire se si può provocare deliberatamente l’effetto positivo senza essere ritenuti responsabili di aver provocato altrettanto deliberatamente quello negativo.
In base al cosiddetto “principio dell’atto a duplice effetto”, implicitamente contenuto in molte legislazioni e negli stessi codici di diritto penale, un’azione che ha un effetto positivo e uno negativo è lecita, ma a condizione che: a) non vi siano alternative che consentano di provocare solo l’effetto positivo senza quello negativo (il dolore del paziente deve essere incoercibile e non altrimenti trattabile); b) che via sia una proporzione fra lo scopo buono che si intende perseguire e l’effetto dannoso che si è disposti a tollerare (la morte deve essere talmente imminente e dolorosa da giustificare una sedazione che rischia di anticiparla); c) che l’effetto dannoso non sia il mezzo per ottenere quello buono (la morte eventualmente provocata non deve essere il mezzo con cui si eliminano le sofferenze).
Certo, per coloro che ritengono lecito provocare intenzionalmente la morte del paziente terminale il problema non si pone. E sono proprio i sostenitori dell’eutanasia che, nel nostro dibattito, tendono a identificare la sedazione terminale con l’eutanasia, ben sapendo che, così facendo, otterranno un duplice vantaggio: per un verso far vedere che l’eutanasia, pur formalmente vietata, è materialmente già praticata; per altro verso evidenziare l’ipocrisia di un ordinamento giuridico che autorizza sottobanco ciò che vieta alla luce del sole. Quando un paziente muore prima del tempo per effetto degli analgesici, peraltro, dire che i medici non si sono posti come obiettivo la morte del paziente ma che questa è stata solo prevista e accettata come effetto collaterale suona, per alcuni, come un escamotage, che mira più a difendere i medici e i parenti da procedimenti giudiziari che il paziente dalla sofferenza.
Sulla stessa linea, altri obiettano che distinguere, all’interno della medesima azione, due effetti, uno voluto come scopo e l’altro previsto solo come conseguenza collaterale, non regge per due motivi. In primo luogo quando si somministrano forti dosi di analgesici che hanno sia l’effetto di placare il dolore sia quello di abbreviare la vita del paziente, non c’è modo di verificare se l’intenzione del medico è effettivamente quella di alleviare le sofferenze e non quella di provocare la morte. In secondo luogo, se l’intenzione di alleviare le sofferenze di un paziente giustifica moralmente un’azione da cui consegue la sua morte, allora anche il medico che pratica un’iniezione letale, non volendo realmente la morte del paziente, ma soltanto l’alleviamento delle sue sofferenze, sarebbe pienamente giustificato. Effettivamente, se tutto dipendesse dall’intenzione soggettiva, allora non sarebbe più possibile distinguere ciò che è eutanasia da ciò che non lo è, e qualunque azione sarebbe ugualmente lecita una volta appurato che lo scopo è quello, senz’altro lodevole, di eliminare le sofferenze del malato.
In realtà, il criterio per stabilire se una determinata azione è o non è una forma di eutanasia non si basa solo sull’intenzione del medico e del paziente, ma anche sulla natura del mezzo impiegato. Chi agisce, infatti, vuole non soltanto il fine (eliminare le sofferenze), ma anche i mezzi adatti a raggiungerlo (dose palliativa di analgesici o iniezione letale). Come si è detto, affinché l’azione di rimuovere il dolore del paziente possa essere giustificata in base al “principio del duplice effetto”, l’effetto negativo (la morte del paziente), non deve essere il mezzo scelto dal medico per ottenere quello positivo (la rimozione del dolore). Se così fosse, infatti, la morte del paziente sarebbe positivamente voluta, benché non come fine ma come mezzo, pur di ottenere lo scopo di eliminarne le sofferenze. In realtà l’effetto primario dei farmaci analgesici non è propriamente la morte del paziente ma l’alleviamento delle sue sofferenze. Se, in seguito, subentra anche la morte del paziente, non si tratterebbe di un effetto voluto, né come fine né come mezzo, ma soltanto previsto e accettato, come dimostra il fatto che il controllo del dolore consegue all’uso del sedativo prima ancora che il paziente muoia. Nel caso dell’eutanasia, invece, la morte non è una conseguenza aggiuntiva e non voluta della propria azione o omissione, ma il mezzo che si sceglie deliberatamente di utilizzare per raggiungere lo scopo di eliminare le sofferenze del paziente.
Insomma, una volta che si sia riconosciuto che il problema, nel caso dei pazienti terminali, non è quello di evitare la morte a ogni costo ma quello di far sì che essa giunga nel modo più conforme alla dignità della persona, qualunque medico si rende conto, abbastanza facilmente, che somministrare dosi progressive di farmaci per alleviare il dolore e somministrare un farmaco letale sono due azioni moralmente diverse. Una cosa, infatti, è decidere di correre il rischio di anticipare una morte comunque imminente pur di alleviare il dolore (dosaggio progressivo di sedativi), altra cosa è decidere di uccidere con lo scopo di eliminare il dolore (iniezione letale). Dato per scontato lo scopo di eliminare le sofferenze – che accomuna favorevoli e contrari all’eutanasia – il criterio per stabilire ciò che è eutanasia da ciò che non lo è si basa dunque non solo sull’intenzione di chi agisce, ma anche sui metodi usati.
Come già negli anni Sessanta affermava la sua prima promotrice, Cicely Saunders, la medicina palliativa coniuga scienza e compassione. Ciò significa, nel nostro caso, che qualunque sia la propria valutazione morale dell’eutanasia, è importante sapere quando ci sono le condizioni, cliniche e morali, per poterne parlare, e quando, al contrario, tali condizioni non ci sono. Nella speranza di aver fatto, al riguardo, un po’ di chiarezza, al lettore che abbia avuto la pazienza di seguire il nostro ragionamento offriamo pertanto la seguente conclusione: la sedazione profonda non è eutanasia quando l’intenzione è non di provocare la morte del paziente ma il lenimento delle sue sofferenze e, di conseguenza, quando il mezzo utilizzato, per esempio un dosaggio progressivo di analgesici, non è necessariamente letale. Si tratta invece di eutanasia quando la sedazione, con il medesimo obiettivo di eliminare le sofferenze, è attuata ricorrendo a metodi che, pur non essendo necessariamente letali (come è per esempio un’iniezione mortale), sono usati in modo da avere un effetto letale. Se praticata secondo i protocolli previsti dalla medicina palliativa e dalla legge, la sedazione terminale non è dunque una “via italiana” all’eutanasia, ma, semmai, un efficace modo per prevenirne la richiesta.
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