di Enzo Bianchi
“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5,29). Questo grande principio biblico sull’obbedienza ha un carattere profondamente liberante.
Nella visione biblica, infatti, l’obbedienza è inscindibile dalla libertà: solo nella libertà si può obbedire, e solo obbedendo al vangelo si entra nella pienezza della libertà. Ma come si declina questa obbedienza resa a Dio e alla sua Parola contenuta nelle Scritture, unica norma normans dell’obbedienza cristiana? Come si discerne se il comando che viene “dagli uomini”, da un’autorità preposta, è conforme al vangelo o lo contraddice?
Risolvere la questione come fece il cardinal Bellarmino – “Se anche il papa errasse comandando dei vizi e proibendo delle virtù, la chiesa è tenuta a credere che i vizi siano buoni e le virtù cattive” (De Romano Pontifice IV,2) – significherebbe commettere una gravissima omissione di responsabilità cristiana e imboccare la strada dell’idolatria. Ben altra l’indicazione offerta da Francesco d’Assisi ai suoi: “i frati obbediscano ai loro ministri in tutte quelle cose che hanno promesso a Dio di osservare e che non sono contrarie alla coscienza e alla regola” (Regola bollata 10).
Per cogliere il proprium cristiano dell’obbedienza è allora opportuno ricordarne l’aspetto antropologico.
Vi è infatti un’obbedienza fondamentale che ogni uomo è chiamato a fare alla propria storia, alle proprie origini, al proprio corpo, alla propria famiglia, insomma a una serie di situazioni e persone, tempi e luoghi, eventi e condizioni che l’hanno preceduto, fondato, e su cui egli non ha avuto alcuna presa o possibilità di scelta e di decisione. Si tratta dei bagagli che la nascita fa trovare già pronti a chiunque viene al mondo e che lo accompagneranno nel cammino dell’esistenza.
Un credente legge questa obbedienza come “creaturale” e vi riconosce quell’accettazione dei limiti che è costitutiva della creatura di fronte al Creatore e che consente all’uomo di diventare uomo fuggendo la tentazione della totalità, cioè di ergersi a Dio. Il senso del racconto della Genesi sulla proibizione di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male è esattamente questo: l’essere umano è tale nella misura in cui non ambisce il tutto. Il limite, il finito è l’ambito della sua relazione con Dio.
Allora si capisce come l’obbedienza cristiana sia “una” in quanto si radica all’interno di quest’unica alleanza con Dio, nella relazione di ascolto del credente nei confronti del suo Dio a dare il tono all’obbedienza.
Ora, per il Nuovo Testamento l’ascoltare, inteso nel senso di percezione della volontà di Dio, si realizza veramente solo quando l’uomo, con la fede e l’azione, obbedisce a quella volontà. Come coronamento dell’ascoltare (audire) nasce dunque l’obbedire (obaudire) che consiste nel credere, un obbedire che trova il suo proprium nell’obbedienza del Cristo stesso, centrata sulla relazione filiale vissuta da Gesù con il Padre e con al suo cuore l’amore per il Padre e per i fratelli, gli uomini: questa obbedienza amorosa dà senso al vivere e al morire di Gesù, anche alla sua morte di croce, e ne fa un atto di libertà!
Qui l’obbedienza cristiana trova la sua “misura” e l’articolarsi in diverse forme, tutte plasmate dallo Spirito santo, che obbliga il credente a viverla con creatività e responsabilità, nella libertà e per amore. Sì, il criterio dell’obbedienza cristiana è lo Spirito santo che interiorizza in ciascuno le esigenze del vangelo e lo porta a viverle come espressioni della volontà del Signore assunte fino a farle proprie.
Alla luce di questa obbedienza fondamentale, si possono comprendere, accettare e vivere le altre obbedienze alle istanze mediatrici della volontà di Dio. Così nella chiesa le diverse articolazioni dell’autorità sono di ordine “sacramentale” in quanto rimandano al loro unico fondamento che sta in Dio e nel popolo a lui legato dall’alleanza.
Vi è allora un’autorità istituzionale, i vescovi, ve n’è una nell’ordine della competenza, i teologi, una nello spazio del carisma, i profeti.
In rarissimi casi queste tre tipologie di autorità arrivano a coesistere in un’unica persona o istanza, mentre normalmente vanno pazientemente armonizzate nell’unico corpo ecclesiale: del resto, proprio il dato che nella chiesa non vi è istituzione autentica senza la presenza dello Spirito fa sì che esista una costante tensione di innovazione e riforma che impedisce la sclerosi.
Anche nella vita monastica e religiosa – che in occidente è giunta a formalizzare in un “voto” l’esigenza evangelica dell’obbedienza – le forme che questa assume possono essere diverse, a seconda delle varie forme di “autorità” che la richiedono: autorità di tipo “monarchico” nella formulazione del comando, come nel monachesimo benedettino; autorità della comunità che si esprime attraverso il “capitolo”, l’assemblea dei fratelli, come nella vita cenobitica di ispirazione basiliana e domenicana; autorità funzionale a un progetto apostolico cui si deve sacrificare la volontà propria sottomettendo il proprio giudizio a quello del superiore, come nella tradizione gesuitica. Ma in ogni caso l’autentica obbedienza cristiana nella vita religiosa tiene conto della vitale dinamica circolare tra regola, autorità e comunità, cioè tra il “patto” della vita comune, l’autorità che lo attualizza nell’ascolto della comunità concreta e quest’ultima che nell’obbedire progetta e rinnova giorno dopo giorno la vita secondo il vangelo.
Su ogni forma e tipologia di obbedienza cristiana deve sempre e comunque regnare il vangelo e tutto deve essere sottoposto al criterio decisivo del vangelo: se ciò che viene comandato è contrario a questa unica norma normans, se le mediazioni della volontà di Dio (autorità ecclesiastiche, dottrine teologiche, regole monastiche, riti cultuali, ecc.) si sostituiscono a Dio e pretendono obbedienza per se stesse, allora al cristiano si apre la strada che da un “dissenso leale” può giungere fino all’obiezione di coscienza.
Dissenso leale significa innanzitutto cercare di fare propria una decisione ascoltando per quali vie chi l’ha assunta dice di averla fatta derivare dalla sorgente evangelica; se poi questo sforzo si rivela infruttuoso, è allora necessario manifestare apertamente, con parresia, umiltà e carità le motivazioni che inducono a ritenere quello specifico comando come contrario al vangelo; se, nonostante questo, il comando permane e permane anche la sua inconciliabilità con la propria coscienza, il cristiano compirà il gesto nobile e drammatico dell’obiezione di coscienza, un mettere in gioco tutto se stesso, accettando anche di pagarne le conseguenze.
Un gesto di cui forse oggi si parla con troppa facilità, anche da parte di chi in tempi non lontani lo considerava insubordinazione inaccettabile: ma così si rischia di banalizzarlo – applicandolo ad ambiti in cui non è in gioco l’essenziale della fede cristiana e della morale espresse dal vangelo – o di spostarne il peso sugli altri. Un gesto, quello dell’obiezione di coscienza che per sua natura è personalissimo, estremo e non può quindi essere programmato in anticipo o in via generale, né tanto meno “comandato” da un altro.
Sì, perché “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”.
Da La Repubblica, 3 aprile 2007
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