La “crisi europea dei rifugiati” cominciò nel 2015 e si acuì nel 2016, quando l’aumento delle persone in fuga nel mondo (secondo i dati UNHCR del 2016, nel mondo 20 persone ogni minuto, 28.300 ogni giorno, sono state costrette a scappare perdendo tutto quello che possedevano, lasciandosi alle spalle guerre e persecuzioni, violenza e violazioni dei diritti umani), mise in tensione il sistema di gestione d’asilo europeo e molti paesi dell’UE cominciarono ad imboccare la strada di risposte individuali spesso tradotte in concreto nel ripristino di barriere, di controlli ai confini esterni e interni dell’UE al limite e, alcune volte, in violazione dell’accordo di Schengen. Nacquero così le forti resistenze di molti paesi a individuare un sistema equo di ripartizione del carico di persone che sono in fuga nel mondo e che fanno domanda d’asilo in un paese dell’UE. A ben vedere questa crisi certamente non era dovuta, allora come ora – in cui gli arrivi diminuiscono sempre più (quasi 120 mila in Italia nel 2017 contro i 180 mila del 2016) – al numero di persone che in quel periodo aveva presentato domanda, ma alla difficoltà di trovare politiche condivise di gestione di questi flussi. Ricordando, infatti che l’Unione è formata da 28 paesi, ha circa 505 milioni di abitanti ed è il continente più ricco del mondo, non avrebbe dovuto essere impossibile dare accoglienza a un po’ più di un milione di persone nel 2015 o nel 2016. Cosa che avrebbe significato farsi carico di poco più di 2 richiedenti asilo ogni mille abitanti se si fosse trovato un accordo tra i diversi paesi dell’UE. Bisogna ricordare inoltre che l’84% dei rifugiati del 2016 sono accolti nei paesi in via di sviluppo. La nazione che ospita il numero più elevato nel mondo, per il terzo anno consecutivo, è la Turchia con quasi 3 milioni di rifugiati (su una popolazione di 180 milioni di persone), seguita dal Pakistan, con 1,4 milioni di rifugiati, dal Libano con un milione, dall’Iran con 979 mila, dall’Uganda con 940.800 e dall’Etiopia con 791.800. Tra i primi dieci paesi di accoglienza nel mondo, per numero assoluto di rifugiati, l’unica nazione europea è la Germania (all’ottavo posto con 669,500 rifugiati accolti nel 2016). Se invece guardiamo all’impatto del numero dei rifugiati accolti rispetto alla popolazione, nel mondo il paese con più persone accolte nel 2016 risulta il Libano con 169 rifugiati ogni 1.000 abitanti, seguito dalla Giordania con 88 rifugiati ogni mille abitanti, dalla Turchia con 36, dal Ciad con 27, dalla Svezia con 23, dall’Uganda con altrettanti 23 ma con un reddito medio ben diverso dalla Svezia, dal Sud Sudan con 21, da Gibuti con 20, da Malta con 19 e dalla Mauritania con 18.
Non bisogna, poi, dimenticare che se la causa principale delle migrazioni forzate è costituita da situazioni di guerra ed instabilità (nel mondo 37 conflitti in atto e 11 situazioni di crisi – è la III guerra mondiale di cui parla Francesco – con l’Italia fra i primi dieci paesi al mondo per export di armi, per un introito complessivo di 14,6 miliardi di euro e con incremento dell’85% rispetto ai 7,9 miliardi del 2015 e con i paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente, dove le tensioni ed i conflitti sono più numerosi, principali destinatari delle nostre armi), vi sono però altri fattori che agiscono spesso in concomitanza con tale motivazione. Si fugge da disuguaglianze economiche spaventose, disuguaglianze nell’accesso al cibo, nell’accesso all’acqua, dal fenomeno del “Land Grabbing” (accaparramento delle terre, uno scandalo in continua crescita soprattutto nei paesi poveri), dall’instabilità creata dagli attentati terroristici (nel 2015, 12 mila attentati in 129 paesi con quasi 30 mila vittime quasi tutte di religione musulmana).
Non bisogna dimenticare, inoltre, il carico di morti, soprattutto attraverso la rotta del Mediterraneo centrale (5.146 nel 2016 quando gli arrivi erano stati 360 mila e 3116 nel 2017 con 170 mila arrivi, 1,8% di morti nel 2017 contro l’1,4% nel 2016)
La Commissione ed il Parlamento europei in realtà cercarono di fare qualcosa. Nei diversi incontri che si sono susseguiti nel 2015 si arrivò a formulare l’Agenda europea selle migrazioni fondata su 4 pilastri principali seguiti da alcuni punti comuni:
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Ridurre gli incentivi all’immigrazione irregolare;
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Gestire le frontiere: salvare vite umane e rendere sicure le frontiere interne;
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Onorare il dovere morale di proteggere: una forte politica comune d’asilo;
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Una nuova politica di migrazione locale.
Per onorare questi 4 pilastri vengono ritenute prioritarie alcune azioni:
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Aprire gli Hotspot in Italia e Grecia;
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Ricollocamento (Relocation) di 160 mila persone in 2 anni;
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Reinsediamento (Resettlement) nell’UE di 20 mila persone all’anno (40 mila in 2 anni;
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Aumentare la capacità di rimpatriare effettivamente;
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Aumentare il controllo sui confini esterni.
Fu il tentativo di creare un approccio globale ed il documento finale del 7 dicembre 2017 documenta lo sforzo per cercare di unire la dimensione interna e quella esterna delle politiche legate alle migrazioni, come pure a “usare” tutti gli strumenti disponibili sia a livello legale che di fondi. All’Agenda europea si assomma infatti a partire da giugno 2016 anche lo strumento del Compact sulle migrazioni con cui si introducono “premi e punizioni” nell’utilizzo dei fondi destinati alla Cooperazione Internazionale. In questo quadro lo strumento che viene introdotto rispetto ai paesi africani è il Fondo Fiduciario di Emergenza per l’Africa (EU Emergency Trust Fund).
Quale è stato il risultato?
I paesi dell’UE non hanno trovato difficoltà a pensare, e in alcuni casi già a trovare, un accordo rispetto alle politiche di gestione più esterna delle migrazioni, che spesso hanno significato il rafforzamento degli organi di gestione o controllo delle stesse, mentre hanno proceduto molto più a rilento rispetto alle questioni interne, ovvero nel riuscire a superare una crisi di fiducia tra di loro e a rimettere in gioco una solidarietà reale, oltre che finanziaria. Il “ricollocamento” ha dato in due anni risultati deludenti: dei 160 mila persone in due anni, solo 32.336 ricollocamenti (10.842 dall’Italia e 21.524 dalla Grecia).
Tutto ciò continua a rimandare l’immagine di un continente (per quello che riguarda specie i rappresentati politici e le opinioni pubbliche) attraversato da tensioni e crepe, preda di paure e dove i movimenti xenofobi ed estremisti trovano spazio sulla scena pubblica (con un preoccupante aumento di episodi ancora circoscritti ma ugualmente molto pericolosi, di aperta discriminazione e odio razziale.
L’ultimo aspetto che vorrei analizzare è l’attuale risultato dell’avere unito i fondi alla Cooperazione internazionale alla parte di gestione delle migrazioni e, di conseguenza, che forma ha preso in concreto quel dire “aiutiamoli a casa loro” che tanto sembra piacere e rassicurare la maggioranza dell’opinione pubblica, sia nell’UE che nel nostro paese, ma guardato più da vicino nasconde non poche derive ed insidie. Dei 3,3 miliardi di euro del Fondo Fiduciario per l’Emergenza sono stati approvati progetti per circa 2 miliardi di euro ma non bisogna dimenticare come questi fondi , sotto la spinta dell’“emergenza”, non siano più vincolati al controllo del Parlamento europeo e possano anche essere destinati ad azioni non “strettamente” o esclusivamente di aiuto umanitario o allo sviluppo. Il rapporto CINI e CONCORD evidenziano come il Fondo “sia uno strumento politico sempre più focalizzato nei paesi chiave (Libia, Niger ed Etiopia) su progetti che propongono soluzioni rapide, mirate ad arginare i flussi migratori verso l’Europa. Anche il nostro paese non ha saputo fare di meglio: da progetti di stampo umanitario e di sviluppo a progetti più incentrati sul controllo delle migrazioni (FOCSIV e ASGI). Il Fondo per l’Africa italiano, pari a 140 milioni, così è stato utilizzato: 61% al controllo delle frontiere, 17% ai ritorni, 17% alla protezione e solo il 5% alla cooperazione allo sviluppo.
L’inefficacia delle politiche europee sulla gestione dei flussi migratori, trattato di Dublino ed Agenda con il loro approcci hotspot, la lista dei paesi sicuri, la ricollocazione, il reinsediamento ed i rimpatri, ha reso il sistema di accoglienza in Italia emergenziale, poco trasparente ed il più delle volte inefficace.
Adesso si parla di Dublino IV ma S. Peers, dopo la pubblicazione della proposta di riforma così ironicamente commenta: “Ormai da più di venti anni l’UE e gli Stati membri hanno cercato di far funzionare il sistema Dublino. I continui miserabili fallimenti di questa chimera – come la storia del maiale volante – non hanno mai intaccato i successivi tentativi. Con la sua nuova proposta, la Commissione sta davvero provando a costringere il povero maiale a volare infilandogli un missile nel di dietro. Credo sia meglio fare un passo indietro”.
Così l’Europa e l’Italia si sono allontanate sempre più dal realizzare le 4 parole del papa, accogliere, proteggere, promuovere ed integrare. Sappiamo però che nell’incontro e nelle risposte che sapremo dare a questa gente in cerca finalmente di una vita migliore, anche in termini di azioni concrete e di riconoscimento dei diritti, non si gioca soltanto quello che possiamo fare ma anche che tipo di persone siamo noi, in che cosa crediamo e quali sono i nostri valori. Ricordando le parole di P. Arrupe: “Occorrono uomini e donne che non aumentino, con il loro contributo, la riserva già enorme di ingiustizie nel mondo, ma che si oppongano con la magnanimità all’ingiustizia, rifiutandosi di entrare nel gioco”, non bisogna dimenticare, infatti che una parte della società civile, di organizzazioni ed enti di tutela hanno provato e continuano a provare a fare rete, a far nascere dal basso idee, progetti e collaborazioni che già attuano solidarietà, la mettono in pratica e in circolo nella società per far rifiorire spazi di comunità e condivisione. Forse questa è la vera Europa, forse questa è la vera Italia.
*Tratto da “Con lo sguardo rivolto all’Europa” di Mariacristina Molfetta in “il Diritto d’Asilo, Report 2018, Accogliere, Proteggere, Promuovere, Integrare”, della Fondazione Migrantes, Organismo Pastorale della CEI.
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