Ci sono momenti, nella storia di un popolo, in cui la politica diventa lo specchio di un profondo cambiamento del modo di essere uomini e donne. Non si tratta solo delle scelte elettorali: è tutto un insieme di stati d’animo, di opinioni, di atteggiamenti, che trovano espressione, oltre e più che nel voto, nelle conversazioni al bar, sui social, nei sondaggi di opinione, e in cui emerge un volto che non ci aspettavamo.
È quello che sta accadendo in Italia. Ciò che colpisce non sono tanto le evidenti contraddizioni, le prevaricazioni, le forme di violenza che si sono consumate a livello governativo e che sono state puntualmente denunziate da tutti i più autorevoli osservatori, ma il fatto che proprio attraverso di esse il loro autore, il segretario della Lega Salvini, ha in queste settimane guadagnato la cima della classifica nella graduatoria dei gradimenti da parte degli italiani. “Finalmente! Era l’uomo che ci voleva”, dicono molti. E già i suoi seguaci, in delirio, gli hanno coniato un titolo – “capitano” – con cui lo invocano nei raduni dove egli dialoga con la folla, rinnovando rituali estranei alla tradizione democratica della nostra Repubblica, ma ben noti agli studiosi dei totalitarismi.
Ma forse ancora più inquietanti delle fanatiche adesioni al verbo leghista sono le perplessità di tanti che erano stati fino a ieri lucidamente critici nei suoi confronti, e che, davanti a questo successo travolgente, hanno cominciato a dar credito, con vari “distinguo”, al “cambiamento” proposto dal governo a traino leghista, suscitando grande delusione e amarezza in chi resta suo fiero oppositore. Da qui discussioni accanite, con scambio di parole grosse e perfino rotture di amicizie che duravano da anni.
Per evitare equivoci, vorrei fare qualche osservazione preliminare a quanto dirò dopo. La prima è che essere contrari al “governo del cambiamento” non significa necessariamente – come spesso ci si sente rinfacciare acidamente – essere stati o essere dei sostenitori dei partiti che in passato hanno retto il nostro Paese. Al contrario, la critica che alcuni – tra cui il sottoscritto – rivolgono a questo governo è di essere il cavallo di Troia attraverso cui il “vecchio” che ha occupato la scena nella Seconda Repubblica (penso ovviamente a Berlusconi, ma anche alla stessa Lega), insieme ad altre forze altrettanto compromesse (penso al PD), sta cercando di riciclarsi come “nuovo”, senza neppure darsi tanto da fare per cambiare abito. Le polemiche di Salvini contro la sentenza della Cassazione che conferma la necessità di recuperare i 50 milioni di euro rubati dalla Lega negli anni scorsi ricordano talmente gli attacchi rivolti per vent’anni da Berlusconi contro la magistratura, che perfino il ministro della giustizia, Bonafede, ha timidamente tentato di prenderne le distanze.
La seconda osservazione, connessa alla precedente, è che rifiutare il “cambiamento” proposto da questo governo non comporta affatto essere stati complici della situazione precedente o rimpiangerla. Per quanto mi riguarda, ad esempio, al tempo del governo PD e del ministro Minniti ho denunciato con durezza la politica di falsa accoglienza nei confronti dei migranti (v. i miei post “Accoglienza o emarginazione”, del 16 settembre 2016, su fb e “Le menzogne sui migranti”, del primo febbraio 2018, su questo stesso blog). E anche su tante altre questioni sarà facile trovare su “Tuttavia” le mie prese di posizione contro la politica dei governi di Renzi e Gentiloni. Questo per la chiarezza.
Non è in discussione, dunque, il legittimo intento di cambiare, che ha giustificato la pacifica rivoluzione del 4 marzo. È come questo cambiamento viene inteso e realizzato a essere inaccettabile. In particolare è inquietante – per lui, ma soprattutto per gli italiani – il fatto che, sia durante tutta la campagna elettorale, sia ora che è al governo, Salvini abbia aumentato enormemente il consenso nei suoi confronti battendo quasi esclusivamente sul tasto degli immigrati. Ed esibendo nei loro confronti un atteggiamento che ha attirato evidentemente le simpatie e il consenso della gente.
Ma che tipo di persona è uno che – di fronte alla tragedia di uomini, donne e bambini in fuga da territori dove infuriano guerre e carestie, e disposti perciò a rischiare la vita in un viaggio spaventoso attraverso il deserto, esposti a violenze di ogni genere, pronti infine ad affidarsi a barconi sovraffollati, col pericolo di annegare – ironicamente definisce tutto questo «una crociera»? E che persone sono gli uomini e le donne – magari buoni cattolici, fedelissimi alla messa domenicale – che non se ne indignano e non sospettano che ci sia qualcosa di profondamente diverso da ciò che finora abbiamo definito “umano” (non parliamo di “cristiano”)?
Qui è in gioco non il governo, ma chi stiamo diventando noi stessi. Mi torna in mente la famosa pièce teatrale di Eugène Ionesco intitolata Il rinoceronte (1959). Un giorno, improvvisamente, intorno al protagonista – un modesto impiegato, di nome Berenger – colleghi, conoscenti, si vanno trasformando in rinoceronti.
Berenger è sconvolto. Il collega Dudard si sforza di tranquillizzarlo, facendogli notare che in fondo non sta accadendo nulla di drammatico: «Lei è troppo impressionabile. Lei non ha il senso dell’umorismo (…). Bisogna prender le cose più alla leggera, con maggiore distacco». Per lui, non c’è nulla da fare se non aspettare. E quando Berenger parla di qualcosa di male che sta accadendo e che bisogna combattere, insorge: «Il male, il male! Parola vuota. Lo sappiamo noi che cos’è il bene e che cos’è il male?». Il povero impiegatuccio però insiste, attirandosi un’ironica obiezione da parte del collega: «Vedo che lei è molto sicuro di sé. Come stabilire dove finisce la normalità e dove, comincia l’anormalità?».
Certo, ammette Dudard, si tratta di una scelta di vita opinabile, ma da non demonizzare. Del resto, osserva, «è difficile saper le ragioni segrete delle decisioni del prossimo». Si appella addirittura al Vangelo: «Non giudicate se non volete essere giudicati».
Anche Salvini si appella al Vangelo. E molti cattolici irreprensibili oggi sono dalla sua parte. O, almeno si riconoscerebbero nella posizione di Dudard, che trova estreme e ingiuste le accuse di Berenger: «Lei è un intollerante», gli dice. E Berenger: «E lei è troppo tollerante, troppo comprensivo! (…) Lei diventerà presto un simpatizzante dei rinoceronti, glielo dico io». Replica di Dudard: «Guai a colui che vede il vizio dovunque! È tipico degli inquisitori».
Alla fine Dudard diventerà, effettivamente, un rinoceronte. Anche un altro collega, che pure era il più scettico e contestatore dell’ufficio, si trasforma, dopo aver sentenziato «Bisogna seguire il proprio tempo». Ma Berenger ha preso la sua decisione. Le ultime parole della rappresentazione sono una sfida, anche se disperata: «Io non mi arrendo! Non mi arrendo!».
È solo una parabola, la cui portata simbolica va ben al di là del problema dell’adesione alla linea e soprattutto all’atteggiamento della Lega sugli immigrati. Oggi però è su questo che siamo chiamati a scegliere se essere uomini e donne, oppure rinoceronti.
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