In “Psicologia dell’omosessualità” (Carocci, 2009), le autrici Cristina Chiari e Laura Borghi ricordano che, nel passato, «i ricercatori affrontavano l’analisi della coppia omosessuale riconducendola al modello eterosessuale» (p. 95). In realtà lo fanno ancora, incluse le autrici del libro, quando rivendicano il diritto omosessuale di contrarre matrimonio e di avere figli. Rivendicare un simile diritto, in effetti, ci porta indietro verso una concezione comparativa di omosessualità, che non si accetta nella propria diversità, assumendo come paradigma l’eterosessualità coniugale e procreativa.
Per riconoscere diritti anche alle coppie gay, a ben vedere, non è necessario omologarle alla famiglia tradizionale, come invece facciamo quando, con la maternità surrogata, ne accogliamo le più radicali richieste di emulazione della sua struttura eterosessuale. “Avere figli”, in effetti, è una peculiarità eterosessuale. Quando gli omosessuali, con la maternità surrogata o l’adozione di minori, chiedono di essere come gli eterosessuali, non si comportano in modo diverso da altri omosessuali che, ricorrendo alla terapia riparativa, non accettano la loro omosessualità, cercando di renderla più simile possibile all’eterosessualità. Il rischio, insomma, è che le coppie gay che rivendicano il diritto di adottare bambini o di procrearli artificialmente, siano guidate da un pregiudizio “eterosessista”, e cioè dalla convinzione che coppie omosessuali senza figli non siano pienamente coppie, e che solo la coppia eterosessuale, con la sua funzione procreativa, sia veramente degna di essere chiamata “coppia” o “famiglia”.
Non nego, come ho scritto in tante occasioni, che le persone omosessuali abbiano lo stesso diritto di amarsi che hanno gli eterosessuali, e di farlo nella piena accettazione e valorizzazione della loro specifica condizione, senza complessi di inferiorità nei confronti dell’amore eterosessuale. Il caso della maternità surrogata, però, non rientra in questo “diritto di amore”. E non solo perché fa riemergere un complesso di inferiorità nei confronti dell’eterosessualità procreativa, ma soprattutto perché nell’utero in affitto la tendenza mimetica della coppia gay non si limita a riprodurre, in proprio, i tratti della famiglia eterosessuale, ma li “toglie”, per così dire, alla stessa famiglia eterosessuale. E “togliere”, qui, non è una metafora, visto che, nella maternità surrogata, al bambino è fisicamente tolta la propria madre.
Io non credo che le persone che formano una coppia gay, e che hanno un comprensibile e umano desiderio di figli, siano così limitate da non comprendere che, anche se dolorosa, la rinuncia ad avere un figlio in questo modo è ragionevole. Ed è anzi un gesto di maturità affettiva, richiesto, peraltro, anche a coppie eterosessuali tentate dalla fecondazione eterologa.
Talvolta, purtroppo, corriamo il rischio di assecondare tutte le richieste delle persone omosessuali, anche le meno accettabili, per tacitare il nostro storico senso di colpa nei loro confronti, vista la discriminazione a cui le abbiamo sottoposte socialmente e moralmente. In questo modo, però, continuiamo, anche se più sottilmente, a discriminarle, ritenendole incapaci di porsi dei limiti che, al di là del fatto che si sia omosessuali o eterosessuali, è giusto che ogni persona ragionevole si ponga. Rispettare tutte le persone, in effetti, significa rispettare anche i bambini. Anche loro sono persone. E rispettare tutte le persone significa rispettare anche la loro capacità di porsi responsabilmente dei limiti. Senza pensare che, per il solo fatto che ci sentiamo in colpa nei loro confronti, siano incapaci di farlo.
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