Martini e la “sindrome del pendolo”
Nel 1985 i missionari italiani impegnati nell’evangelizzazione in Kenya invitarono il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, a tenere un corso di esercizi presso il Centro pastorale dei missionari della Consolata di Sagana. «Accetto volentieri. Anzi, direi con gratitudine.
La possibilità di incontrare missionari al lavoro e dialogare con loro è per un privilegio», rispose. Chiese solo di poter tenere quel corso durante la prima settimana di agosto. Infatti, avrebbe già dovuto venire in Kenya come delegato di Giovanni Paolo II al Congresso eucaristico internazionale, previsto nella capitale kenyana dall’11 al 18 agosto, incentrato sul tema “Eucaristia e famiglia cristiana”. Sarebbe toccata a lui la lectio inaugurale al Kenyatta Conference Centre (nella foto, con il vescovo Zaccheus Okoth). Il giorno 16, Giovanni Paolo II sarebbe giunto a Nairobi per la grande cerimonia eucaristica di conclusione all’Uhuru Park, provenendo dal Togo, dalla Costa d’Avorio, dal Camerun e dallo Zaire, per poi proseguire verso il Marocco, dove avrebbe concluso il suo «terzo pellegrinaggio apostolico nel Continente Nero» con l’incontro con i giovani musulmani nello stadio di Casablanca.
Il card. Martini giunse in Kenya alla fine di luglio e chiese di poter visitare alcune missioni. Lo scorrazzammo in lungo e in largo per tutta la Provincia Centrale. Era una persona estremamente “curiosa”. Faceva molte domande e ascoltava attentamente tutti. Poi tornava alla carica con nuovi perché (cur in latino) su una scelta di metodologia apostolica, su un atteggiamento che gli sembrava scorgere in alcuni, o su un sentimento che pareva emergere dalle parole di altri.
La sera di domenica 4 agosto tenne una breve introduzione al corso di esercizi spirituali. Disse: «In questa cartella ho gli schemi delle meditazioni che ho preparato. Ma prima di aprirla e dirvi su cosa intendo aiutarvi a riflettere, mi prendo la libertà di confidarvi un pensiero che è andato imponendosi nella mia testa negli ultimi giorni, proprio mentre visitavo alcuni di voi nelle vostre missioni. Vivete in una cultura che è prettamente orale, molto simile a quella che Gesù trovò nella Palestina del suo tempo. Più che dogmi di fede e chiari principi di catechismo, forse fareste bene raccontare storie e diventare esperti di una “teologia narrativa”». Aggiunse: «Vorrei proporvi un corso di esercizi diverso da quello che ho preparato. In questi giorni che trascorreremo insieme, mi piacerebbe rispondere con voi a una domanda: “Perché Gesù parlava in parabole?”. In altre parole: perché ha usato quel linguaggio per rivelare all’umanità il mistero del Padre. E perché, invece, noi non parliamo più in parabole?».
Non aprì mai quella cartella. Né ci disse l’argomento che aveva scelto in origine. La mattina seguente, si presentò con un minuscolo foglietto su sui aveva annotato alcune citazioni bibliche e chiese a uno dei presenti di scriverle su una lavagna perché tutti potessero copiarle. Avrebbe fatto la stessa cosa per tutte le “meditazioni” successive. Insomma: “inventò” quel corso di esercizi, meditazione dopo meditazione, andando a braccio, servendosi esclusivamente del testo greco del Nuovo Testamento. Le registrazioni di quelle riflessioni sarebbero state poi sbobinate e pubblicate nel libro Perché Gesù parlava in parabole? (Edb/Emi, 1985).
Non era la prima volta che sentivo il noto biblista. Avevo già fatto con lui un corso di esercizi, in preparazione al mio diaconato. Sapevo che era un predicatore esperto e che ogni sua affermazione era supportata da approfonditi studi e da una bibliografia smisurata.
Ma non furono le meditazioni sul “predicare in parabole” di Gesù a colpirmi maggiormente, bensì una delle riflessioni che fece una sera, dopo cena, nel corso di una “sessione libera”. «Non siete tenuti a prendervi parte», ci aveva detto: «È più un desiderio, un bisogno mio di chiacchierare con voi, di farvi domande, di ascoltarvi… E se ne sarò capace, o se me lo chiederete, potrei anche condividere con voi alcuni pensieri sulla missione». Fu lì che ci si rivelò il tratto più vero della sua personalità.
Uno dei corsisti gli chiese: «Prima di venire qui a Sagana, lei ha visitato alcune nostre missioni e ha parlato con alcuni di noi. Deve essersi fatta un’opinione del nostro modo di fare missione. Ce la vorrebbe confidare?».
Tergiversò alquanto. «Non ho avuto il tempo necessario per vedere, capire, riflettere… E chi sono io per esprimere un giudizio su persone che da tanti anni stanno lavorando sul fronte della missione?». Ma, pressato da tutti, alla fine parlò: «Forse ho avvertito in voi un rischio, che potrei definire la “sindrome del pendolo”. Vi trovate in situazioni difficili e stili di vita che difficilmente collimano con la morale cristiana, con le leggi della chiesa, con il codice di diritto canonico… Vi ho sentito parlare della bellezza di una nuova comunità cristiana che nasce dalla Parola sentita dalle vostre labbra, dell’entusiasmo iniziale di un gruppo di persone che decidono di tentare l’avventura di credere nel Vangelo, quasi aveste a che fare con una delle comunità cristiane primitive descritte negli Atti degli apostoli. In altri, invece, mi è parso di notare una perdita dello slancio iniziale: troppe le difficoltà contro cui cozzate; il processo d’inculturazione del messaggio evangelico assorbe tutte le vostre energie, ma è anche motivo di preoccupazione, di scoraggiamento, di delusione. La freschezza e la vivacità degli inizi si tramutano facilmente in cupezza, grigiore, artificiosità, calcolo. Che fare?»
«In simili frangenti, potresti avvertire il bisogno di tornare alla purezza iniziale, alla radicale serietà della scelta. Forse venite colti da un fastidioso senso di amarezza (“Ho sbagliato tutto”) e desiderate essere di nuovo severi, esigenti, austeri, duri, inclementi, fermi, fiscali, inflessibili. Decidete, allora, di eliminare dal vostro approccio missionario ogni accondiscendenza con la cultura locale e con le troppe debolezze dei gruppi umani con cui vivete e ridiventare uomini e donne della legge: niente più matrimoni di prova o in fieri, niente più comprensione della poligamia, niente più bonarietà, o permissività, o approssimazione… Solo Vangelo allo stato puro!
Ma è difficile persistere in questo atteggiamento. Dopo un poco, vi accorgete che la gente non ce la fa a essere perfetta come vorreste. E forse sentite come rivolte a voi le dure parole dette da Gesù ai farisei: caricate sulle spalle degli altri pesi che non siete in grado di portare sulle vostre. Mantenere quella posizione di rigidità diventa estenuante, spossante, snervante, deprimente per voi e per tutti. E allora mollate la presa e “dondolate” dall’altra parte: tornate a essere benevoli, bonari, clementi, liberi, se non libertari, pazienti, permissivi… per poi pentirvi, appena notate nuovi tradimenti del vangelo. Fate come il pendolo: ora tutto da una parte, ora tutto dall’altra».
Chiuse gli occhi, fece una lunga pausa di silenzio e poi aggiunse: «Dove penso possa trovarsi quella che definirei una posizione di “equilibrio evangelico”? Non certo a metà strada tra la rigidezza e la permissività. Non credo che valga il detto: il meglio sta nel mezzo. L’unico luogo in cui un apostolo del vangelo deve situarsi per non ammalarsi della sindrome del pendolo è sul Golgota. Più precisamente sulla Croce. Più precisamente ancora, nel cuore trafitto di Cristo.
Piazzatevi lì. E dalla fessura procurata dalla lancia, osservate la vostra gente. Forse vedrete che i più sono molto lontani, ancora alle falde del monte o appena all’inizio del pendio. Continuate a guardarli, a contemplarli. Soprattutto, amateli con la vampa d’amore che arde in quel cuore.
Non legatevi troppo a questa o quella tabella di marcia. Non intestarditevi su questo o quel percorso. Non pretendete che siano tutti provetti scalatori. Non riprendeteli se li vedete salire zigzagando, o se rallentano, o se cadono e si fermano.
Una sola deve essere la vostra preoccupazione: che la gente non faccia mai un percorso a ritroso, cioè un cammino che la allontani da quel cuore e da quell’amore. Concedete loro di salire con la velocità di cui ognuno è capace e con le pause di cui necessita. Rispettate il fiatone che molti potrebbero avere. E se cadono, invitateli a rialzarsi, magari mostrando loro come fare. L’importante che riprendano il cammino che li avvicini al quel cuore, che è il centro dell’amore che muove ogni cosa».
C’era tutto il cardinal Martini in quelle parole. C’era la sua impressionante capacità di cogliere una problematica apostolica, di verbalizzarla in maniera chiara e di suggerirne una soluzione. C’era quella che, alcuni anni prima, aveva definito “la dimensione contemplativa della vita”. E c’era, soprattutto, la sua fede nell’amore di Dio, la cui icona perfetta è il cuore trafitto di Gesù.
Credo sia sempre rimasto ben piantato in quel cuore e che abbia guardato al mondo – agli uomini e donne, ai cattolici, ai cristiani, ai laici, agli atei, agli scienziati… – attraverso la trafittura procurata dalla lancia. Ecco perché non è mai stato vittima della “sindrome del pendolo”, ma ha vissuto con una impressionante coerenza umana e cristiana, fondata nella sapienza di Dio (che si trasformava in lui in intelligenza) e sostenuta dall’incrollabile fede nell’amore eterno di Cristo per tutti noi. Non è stato soltanto insuperabile nello spiegare perché Gesù parlasse in parabole: è diventato lui stesso una “parabola di Gesù”.
p. Franco Moretti, comboniano
da Nigritia.it
http://www.nigrizia.it/sito/notizie_pagina.aspx?Id=12023&IdModule=1
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