La formula, continuamente ripetuta, sia da Salvini che da Di Maio – «Mantenere gli impegni presi con gli italiani» –, pone in realtà almeno due problemi.
Il primo è se questi impegni davvero siano stati presi dai 5stelle e dalla Lega con tutti i cittadini, oppure solo con i loro elettori. Salvini ha più volte affermato di avere dietro di sé l’appoggio di 60 milioni di italiani. Ma il suo partito, alle elezioni del 4 marzo scorso, ha avuto solo il 17% dei voti. E anche sommando a questi il 32% ottenuto dai pentastellati, si arriva al 49% degli elettori. Mancano il 51% di coloro che hanno votato per altri partiti e – rispetto al totale degli aventi diritto – il 27% di coloro che non sono andati a votare. È vero che, in questi mesi, i sondaggi (che comunque non hanno alcun valore istituzionale e di cui bisognerebbe poi verificare la corrispondenza alle scelte effettive di chi va al voto) danno al 60% i consensi all’operato del nuovo governo: ma resta il 40% di quanti invece non vi si riconoscono e per molti dei quali gli “impegni” che Salvini e Di Maio vogliono rispettare non sono mai state delle promesse, ma delle minacce per il bene dell’Italia.
In effetti, mai come in questo inizio della cosiddetta Terza Repubblica – forse nemmeno ai tempi dei governi di Berlusconi – si era registrata una così drammatica frattura nella coscienza del nostro Paese. Proprio in un momento in cui il governo opera senza avere praticamente un’opposizione al livello parlamentare (il Pd è troppo occupato dai suoi giochi interni di potere), monta dal basso tanta gente che si dissocia dalla pretesa unanimità rivendicata dal leader leghista. Giorni fa a Raitre sono giunte migliaia di mail con il solo messaggio «Io non sto con Salvini». E sui social si registra uno scontro di violenza senza precedenti fra i sostenitori delle scelte del governo e coloro che le stigmatizzano con indignazione. Ora, per quanti sforzi i vincitori del 4 marzo abbiano fatto, fin dalla campagna elettorale, per identificare i loro oppositori con nemici del popolo, profittatori, ladri, e altre categorie poco lusinghiere, è difficile sostenere che tutte queste critiche – tra l’altro sostenute dalla stragrande maggioranza dei più autorevoli opinionisti (anche loro, per questo, demonizzati da 5stelle e Lega) – siano espressione dei “poteri forti” che non vogliono il cambiamento.
Se le cose stanno così, acquista un significato molto problematico l’insistenza ossessiva con cui Di Maio e Salvini ripetono di avere il dovere morale di rispettare gli impegni presi in campagna elettorale con coloro che poi li hanno eletti. Chi governa non deve soddisfare gli interessi e le attese dei suoi sostenitori, ma quelli della comunità nel suo insieme. Conte sembrava averlo capito, quando ha detto che sarebbe stato «l’avvocato di tutti gli italiani».
Allora, il criterio che dovrebbe guidare lo stesso premier e i suoi “vice” nel fare le loro scelte non può essere quello di non deludere i propri elettori, a costo di spaccare il Paese, ma di trovare delle soluzioni il più possibile confacenti al bene comune, attraverso un confronto rispettoso con le voci del dissenso. Il che comporterebbe da parte di Di Maio, e ancor più di Salvini, un atteggiamento meno sprezzante verso ogni critica («Io tiro dritto»).È il crinale fra la logica del populismo, che vuole (è da sempre una richiesta dei 5stelle) il mandato imperativo, con cui sono gli elettori a decidere cosa deve fare l’eletto, e quella della democrazia parlamentare, espressa dall’art. 67 della nostra Costituzione, secondo cui chi ha avuto la fiducia della gente per governare deve poi essere in grado di porsi al di sopra della propria fazione ed essere il rappresentante di tutti, anche degli “altri”.
La seconda questione che la formula «Mantenere gli impegni presi con gli italiani» pone è se questi impegni, anche solo nei confronti dei propri elettori, si stiano davvero mantenendo. Non è questa la sede per un esame complessivo della politica del governo. Mi limito esaminare due punti.
Scelgo il primo perché è quello che Salvini, fin dalla campagna elettorale, ha enfatizzato e per cui ha rivendicato a gran voce il pieno successo della sua azione di governo. Si tratta del blocco all’arrivo di migranti nel nostro Paese. Con soddisfazione, dopo tre mesi di permanenza al Viminale, il nostro ministro degli Interni ha potuto dichiarare che, da quando lui è al governo, gli sbarchi sulle coste italiane sono diminuiti dell’80%.
Missione compiuta, dunque! Salvo a scoprire, guardando le statistiche ufficiali dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati, su cui Salvini stesso si basa, che questa diminuzione non è cominciata con il governo giallo-verde, ma risale al gennaio scorso, quando questo governo ancora non esisteva ed era al potere l’odiato PD. Basta andare a vedere su internet. Già da mesi, quando Salvini ha intrapreso spettacolarmente, attirando su di sé la luce dei riflettori, la sua grande battaglia, la guerra era stata vinta dal ministro degli interni precedente, Minniti, che aveva fatto degli accordi con il governo libico per bloccare i partenti nei campi di concentramento libici.
Per quanto mi riguarda, ho attaccato quello squallido compromesso – fatto da un governo “di sinistra”! – nel mio chiaroscuro «Le menzogne sui migranti», dei primi di febbraio 2018. Prendo atto, però, che gli sbarchi da allora erano diminuiti dell’80%. Il vero “Salvini” – a parte i clamorosi respingimenti e il chiasso mediatico, che non hanno minimamente cambiato i patti su questo punto con l’Europa – l’aveva già fatto Minniti! Perciò, dire, da parte del leader leghista, che da quando c’è lui gli sbarchi sono enormemente diminuiti è senz’altro vero, ma come sarebbe vero se dicessi che da quando sono nato io il sole sorge ogni mattina (innegabile, solo che anche prima era così…).
L’altro punto su cui mi chiedo se davvero le promesse siano state mantenute riguarda il sistema televisivo. Lo scelgo perché proprio in questi giorni Salvini e Berlusconi hanno stretto un accordo per permettere al candidato della Lega per la presidenza della Rai, Marcello Foa, di superare il veto da parte della commissione di vigilanza. Ho ascoltato personalmente una intervista televisiva di Di Maio in cui, prima delle elezioni, prometteva ai suoi elettori ansiosi di cambiamento che si sarebbe finalmente eliminato lo scandalo del potere mediatico di Berlusconi e si sarebbe scelto per guidare la Rai una figura di alto profilo, veramente super partes.
Ora, l’accordo tra Salvini e Berlusconi include anche una garanzia, nei confronti di quest’ultimo, che gli interessi di Mediaset non verranno toccati. Prima smentita alle promesse. Quanto a Foa, non ho niente contro di lui, ma definire “di altro profilo” e “super partes” un individuo che è da anni un giornalista gregario della linea di Salvini – tanto da arrivare a dichiarare in un tweet, al tempo delle trattative per formare il governo, il proprio «disgusto» nei confronti del capo dello Stato perché non cedeva alle indebite pressioni della Lega –, mi sembra un’offesa all’intelligenza. C’è di più: notizie di stampa, che lo stesso Salvini ha dovuto confermare, hanno rivelato che il figlio di Foa lavora come impiegato nello staff del leader leghista, configurando così un chiaro nesso di interessi, oltre che politico, tra i due. Super partes?
So già che queste riflessioni non intaccheranno minimamente le certezze dei sostenitori del nuovo governo e, al massimo, mi attireranno i loro insulti. Io però appartengo a una generazione precedente alla post-verità e che credeva compito dell’intellettuale smascherare le bufale e invitare la gente a pensare, quali che fossero poi le reazioni. Pubblico perciò queste considerazioni nello stato d’animo del naufrago che affida il suo messaggio a una bottiglia, abbandonata alle onde dell’oceano, contento già della speranza che prima o poi qualcuno lo raccolga e lo legga.
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