Dante e Virgilio, dopo i due canti introduttivi, si trovano davanti alla porta dell’Inferno. In cima ad essa una scritta inquietante che annuncia l’ingresso nella “città dolente”. Virgilio raccomanda a Dante di abbandonare ogni timore. Occorrono coraggio e determinazione per attraversare il regno del dolore. Dante è pronto per il viaggio.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira. E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?». Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa». E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna; e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
Questo è il canto degli ignavi, un termine ignoto al volgare di Dante. Esso, infatti, proviene dal latino ignavus, che vuol dire ‘indolente’, ‘pigro’. In realtà di questa categoria di dannati si parla soltanto fino al verso 69. Dal v. 70 in poi, alquanto sbrigativamente, Dante riguarda oltre, e si avvia verso l’Acheronte per il traghettamento destinato all’Inferno vero e proprio. Ma se questo è Inferno ma non è ancora Inferno, cos’è? Perché Dante autore si è inventato una sorta di terra di nessuno e l’ha fatta abitare da una particolare schiera di eternamente infelici? Come al solito, lasciamo parlare il testo rinunciando alle sbrigative sintesi concettuali.
Il primo approccio è angosciante. Lamenti, pianti, urla di sofferenza sotto un cielo buio. Tutto un vociare sguaiato e sgraziato, o meglio disgraziato, accompagnato da battiti di mani che sono tutt’altro che segni di gioia. Piuttosto aggravano il “tumulto” generale. Ecco, la prima esperienza sensoriale è quella del caos. Anche oggi diciamo che in un certo luogo c’è un “caos infernale”. È un’umanità scomposta e disperata, quella che Dante si trova davanti, che emette suoni animaleschi, e soprattutto è colta in una sorta di movimento tanto incessante quanto, come si vedrà, insensato. Il cielo è “senza tempo”. Né giorno né notte, nessuna differenza. Che è lo statuto, ora vedremo, di questa umanità. Umanità senza differenza, come dire in-differente.
Dante vuole spiegazioni su questo caos e Virgilio fa il suo mestiere, quello di spiegare come stanno le cose. Ecco la spiegazione. Questa gente ha vissuto “sanza ‘nfamia e sanza lodo”. L’espressione è rimasta proverbiale tutt’oggi nel linguaggio comune, quando vogliamo produrre una valutazione insipida, né positiva né negativa. Questa è gente che non ha conosciuto, come gli angeli dinanzi alla lotta tra l’arcangelo Michele e Lucifero, né la ribellione né la fedeltà. Ovvero non è riuscita ad aderire a nessuna posizione e nessuna idea. Gente che ha vissuto “per sé”. Ecco l’in-differenza, eterna tendenza dell’Umano a tirarsi fuori dalla lotta quando la lotta è scomoda.
Non meritano né il Paradiso né l’Inferno. Alighieri li disprezza al punto tale da averli collocati al di qua del bene e del male, in una zona che rappresenta quasi la non-umanità. Almeno secondo i parametri danteschi di umanità. Infatti costoro invidiano persino i dannati dell’Inferno, ed è quanto dire. E questo perché almeno i dannati dell’Inferno hanno motivi per essere ricordati, in negativo, mentre costoro non meritano neppure di essere degni della giustizia punitiva di Dio. Il concetto di “fama” richiama l’elaborazione dei Sepolcri foscoliani: “fama di loro il mondo esser non lassa”. La peggiore condanna è quella di essere dimenticati.
Virgilio invita Dante a non ragionare di loro, ma a dare solo uno sguardo e andare oltre. Fermiamoci. Nella visione dantesca usare la ragione è esercitare pienamente le facoltà umane. Essere pienamente uomini. I peccatori fraudolenti, condannati alle pene più gravi, sono colpevoli di avere peccato attraverso l’uso della ragione. Virgilio, considerato allegoria della Ragione umana, invita il suo discepolo a non ragionare su di loro. Mai avrebbe dovuto far questo, Virgilio, venir meno alla propria vocazione di maestro della Ragione. Ma qui il poeta mantovano fa una scelta di campo netta: non val la pena ragionare su questa gente, basta uno sguardo rapido e poi l’oblìo. È ciò che Dante fa.
E getta il suo sguardo. Corrono tutti come matti dietro ad un’insegna che non dice niente, contrappasso per chi ha vissuto una vita intera senza alcuna bandiera. Senza pungoli. Senza stimoli. Anzi, con l’unico stimolo del quieto vivere, come il don Abbondio manzoniano. La visione eroicamente romantica di Dante rappresenta questi esseri devastati dalle punture di mosconi e vespe, che rigano il loro volto di sangue. E il sadismo rappresentativo del poeta fiorentino non finisce qui: il sangue, mischiato alle lagrime, viene raccolto ai loro piedi da vermi, e vermi addirittura fastidiosi. Il peggio del disprezzo.
Non ci sono, significativamente, nomi e cognomi. Gente senza identità riconoscibile. Solo un tizio che avrebbe fatto per viltà il gran rifiuto. Celestino V? Ponzio Pilato? Esaù? Non conta molto. Quel che conta, allora come oggi, è il monito ad essere qualcosa, nella vita. Del quieto vivere per non avere fastidi abbiamo larga esperienza quotidiana, senza dover necessariamente scomodare l’omertà mafiosa, che comunque sta in pole position. Travestita da buonismo, o da diplomazia, o da politicamente corretto, l’ignavia dilaga anche nel nostro tempo tutte le volte che in ciascuno di noi si affaccia il “chi me lo fa fare” che tiene al di qua dall’esporsi. Sono tempi di celebrazione della memoria di Pino Puglisi, che è solo uno dei molti “esposti” che hanno pagato la loro esposizione con la vita, o col mobbing (anche digitale), o con una promozione/rimozione.
Quel che lascia pensosi davanti all’elaborazione dantesca non è tanto la rappresentazione plastica della sofferenza di questi pseudodannati, quanto la decisione di escluderli dal giudizio, ovvero di porli su un terreno estraneo alla stessa dimensione etica. L’Inferno è pieno di persone che, secondo l’etica medievale, hanno peccato irrimediabilmente. Ma lo sguardo di Dante su molti di loro (Francesca da Rimini, Brunetto Latini, Ulisse…) è lo sguardo rispettoso di chi sa riconoscere, al di sotto del male, la vita. La vita che ha saputo rischiare il male e il nulla pur di essere vissuta. “Mai non fur vivi”, dice infatti il poeta degli ignavi.
Tanti cristiani tiepidi che professano religiosità da timbratura del cartellino per mera paura del nulla possono sentirsi interpellati dalla parola dantesca?
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