Decreto sicurezza, tra forma e sostanza
Nella disputa Orlando-Salvini è difficile dare torto a Orlando. Ma è anche facile denunciare l’impianto argomentativo della sua tesi, che si appella all’illegalità di alcuni punti del decreto sicurezza, che formalmente è però legale, perché regolarmente approvato dal Parlamento, oltre che firmato dal Presidente della Repubblica.
Si può dire, certo, che il decreto sicurezza sia per molti aspetti “incostituzionale”. E io credo che sia davvero così. Ma fino a quando a dirlo sono dei cittadini, anche sindaci, si tratta di un’opinione di coscienza, che non ha però valore giuridico.
L’incostituzionalità di una legge, infatti, è stabilita dalla Corte costituzionale, non dai cittadini, per quanto moralmente motivata sia la loro accusa.
Le leggi “non si toccano”?
Ben venga allora la decisione di Orlando di sospendere il divieto di iscrizione all’anagrafe degli stranieri ai quali sia scaduto il permesso di soggiorno umanitario, ma avendo chiaro che la sua decisione è di tipo morale – con effetti certamente amministrativi, visto che parliamo di un sindaco – e che, in quanto tale, non è una decisione diversa da quella presa qualche mese fa dal consiglio comunale di Verona, in cui si stanziavano fondi e risorse per prevenire l’aborto.
A proposito di quest’ultimo episodio, come si ricorderà, in molti si stracciarono le vesti, ricordando che l’aborto “non si tocca”, perché è legge dello Stato.
Proprio come fanno in queste ore i leghisti, che ricordano a Orlando che il decreto sicurezza non si tocca, perché è legge dello Stato.
Quando si sceglie di porre i diritti di alcuni contro quelli di altri
A chi ricorda che qui si abbandonano anche minori non accompagnati a una situazione di illegalità – ed è vero e inaccettabile – i difensori del decreto sicurezza si appellano ai diritti degli italiani di beneficiare delle risorse che vengono loro sottratte per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, che non sono cittadini a pieno titolo come i primi.
Mutatis mutandis, a chi ricorda che anche nel caso dell’aborto esseri umani vivi, ma non ancora nati, sono “smaltiti” con la benedizione del legislatore, i difensori della legge 194 si appellano ai diritti delle donne di vedere rispettati il loro superiore status di cittadine a pieno titolo, i cui diritti, si dice, vengono prima di quelli dei non ancora nati.
Al “prima gli italiani” del decreto sicurezza, insomma, corrisponde il “prima le donne” della legge 194.
Eppure i diritti umani sono chiamati così perché sono i diritti di tutti gli esseri umani, e per il semplice fatto che sono umani. O forse valgono solo se si è bianchi, italiani e già nati? E se invece si fosse stranieri? O italiani, ma non ancora nati?
I diritti e i “confini”
So già che mi si potrebbe obiettare che non possiamo paragonare persone già nate, come i migranti, a embrioni e feti umani.
Possiamo farlo, in realtà, una volta che si chiarisca che il paragone riguarda non ciò che ciò che distingue gli uni dagli altri – ossia le esigenze, molto diverse, di un soggetto non ancora nato e di uno già nato – ma ciò che li accomuna, ossia la loro condizione di vulnerabilità, che richiede un intervento di tutela da parte della società e dello Stato.
E se è vero che per accogliere gli esseri umani non ancora nati dobbiamo passare per il corpo di una donna, la cui dignità e autonomia non possono essere violate da terzi, è altrettanto vero che quest’ultimo argomento è pericolosamente analogo a quello usato dai sostenitori del decreto sicurezza, per i quali esseri umani stranieri non hanno diritto a beneficiare del suolo nazionale altrui, se la maggioranza dei cittadini che occupa quel suolo non li desidera, in nome dei propri diritti.
Una scomoda affinità
L’analogia fra la legge sull’aborto e il decreto sicurezza è troppo scomoda e imbarazzante perché io, nel proporla, abbia qualche speranza di essere preso sul serio.
Quasi nessuno dei protagonisti del dibattito a cui stiamo assistendo la accetterà. E se ne capiscono le ragioni. È infatti un’analogia che costringerebbe non solo Salvini, contrario all’aborto, ad ammettere che i propri argomenti contro l’immigrazione clandestina sono gli stessi che i liberali usano a favore dell’interruzione della gravidanza, ma anche tutti gli avversari di Salvini, almeno quelli favorevoli all’aborto, ad ammettere che i loro argomenti contro il decreto sicurezza sono gli stessi che essi usano quando difendono la legge 194.
L’argomento liberale che si appella al primato della scelta femminile per giustificare l’aborto, infatti, si basa sulla stessa logica dell’argomento populistico che giustifica il decreto sicurezza. È la logica proprietaria dello spazio inviolabile, da preservare dal pericolo della contaminazione, rappresentato dall’ospite indesiderato, dallo straniero, che non parla la lingua dei nostri progetti, che minaccia il nostro benessere, che viene respinto “per il suo bene”, perché non può essere “integrato”. Che si parli dell’immigrato o del feto, si tratta dello stesso identico esorcismo.
Se un essere umano non ancora nato non ha alcun diritto a beneficiare del corpo e delle cure di una donna che non lo desidera, insomma, non si vede perché, una volta nato, possa invece beneficiare dell’accoglienza di un paese che democraticamente lo rifiuta appellandosi al proprio bene o alla propria sicurezza.
Casi di individualismo?
Certo, si può obiettare che la sicurezza di cui tanto si parla sia in realtà un falso problema, che nasconde il razzismo piccolo-borghese e individualista del cittadino italiano medio e dei partiti che lo rappresentano. Può darsi.
Ma se è così, non si potrà escludere che anche il motivo che autorizza l’aborto legale, ossia la tutela della salute psicologica della donna, nasconda l’egoismo piccolo-borghese di chi non si assume la responsabilità della vita che ormai porta in grembo.
Cosa che io personalmente non ho mai pensato, ma che non si può oggettivamente escludere una volta che non lo si faccia anche per altri casi del tutto simili come il decreto sicurezza, in cui troviamo, proprio come nel caso della legge sull’aborto, da una parte un soggetto forte e dall’altra un soggetto debole. Un soggetto talmente debole, da non essere considerato nemmeno un soggetto, ma un oggetto da respingere in mare o fra i rifiuti ospedalieri.
Per un umanitarismo coerente
A voler enfatizzare ulteriormente l’incoerenza del nostro umanitarismo, si potrebbe aggiungere che la violazione del diritto alla vita che si consuma nel caso dell’aborto legale è ben più diretta e grave della violazione del diritto del migrante al quale, come nel caso discusso, non è garantita l’iscrizione all’anagrafe cittadina dopo la scadenza del permesso di soggiorno umanitario.
Opporsi a una legge che non garantisce lo status legale a uno straniero bisognoso è giusto e doveroso, ma è ancora più doveroso aiutare le donne a uscire dal vicolo cieco che le induce ad abortire.
Che impedire a bambini non ancora nati di vedere la luce avvenga in forme igieniche e legali, senza che nessuno ne parli più, non significa che sia meno grave di lasciare un minore straniero non accompagnato scoperto dall’assistenza sanitaria gratuita e dall’istruzione.
La debolezza di chi è discriminato
Al contrario: nel primo caso il soggetto debole, pur essendo ingiustamente discriminato, ha in linea di principio delle scappatoie, visto che non dipende totalmente dal soggetto che lo discrimina; nel caso dell’aborto, invece, il soggetto discriminato è alla totale mercé del soggetto che ha potere su di lui, per cui, una volta discriminato, non ha più chance. La violazione del diritto civile di un migrante è insomma in linea di principio risarcibile.
Quella del diritto alla vita di un feto umano no. E se è vero che la violazione di un diritto è tanto più odiosa quanto più il soggetto che la subisce è incapace di difendersi, allora l’aborto, per quanto ci sia assuefatti alla routine della sua pratica legale, rimane forse fra le più sleali forme di violazione dei diritti umani, in cui i già nati approfittano della posizione di privilegio che occupano, per negare voce a chi non può esprimerla se non per mezzo dei propri potenziali discriminatori.
Lo status di “essere umano” e gli interessi di parte
A poco vale obiettare che embrioni e feti umani non sono ancora persone a pieno titolo. Nella sentenza Dred versus Scott, emanata nel 1857 dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, i diritti degli afroamericani furono negati con lo stesso identico argomento: benché biologicamente umani, non potevano essere considerati a pieno titolo persone e, dunque, nemmeno cittadini, ma solo schiavi.
La pratica legale della schiavitù era troppo importante perché si potesse ammettere il pur evidente principio che l’avrebbe messa in crisi.
Non facciamo forse qualcosa di analogo quando diciamo che la legge sul l’aborto “non si tocca” e che il decreto sicurezza “ormai è legge dello Stato”?
L’effetto “assuefazione”
Qui è importante l’effetto “assuefazione”: se oggi richiamarsi all’aborto appare anacronistico è perché la legge che lo ha autorizzato ha vinto, trasformandolo in una routine che passa inosservata.
Che ora i riflettori siano puntati tutti sull’immigrazione è dovuto al fatto che il problema è caldo e attuale, ma in linea di principio potrebbe vincere il populismo, e allora nulla vieta che, fra qualche anno, i nostri nipoti considereranno archiviato il caso “immigrazione clandestina” come noi oggi consideriamo archiviato l’aborto delle mammane.
Allora anche per i migranti, come accade oggi per i bambini non ancora nati, non ci sarà nemmeno il problema di discutere se siano o non siano pienamente persone come noi. Li si tratterà direttamente come persone si serie B, senza avvertire il dovere di giustificare questa diversità di trattamento. E se qualcuno oserà sollevare il problema, ci sarà lo spettro del ritorno alla clandestinità a mettere prontamente a tacere le coscienze. Proprio come fa oggi quando qualcuno osa riaprire la questione dell’aborto.
Due pesi e due misure: le ragioni della coscienza
La verità, come si può notare, è che qualunque legge, di qualunque colore, è sempre criticabile, e con ragioni perfettamente speculari.
Non è corretto, pertanto, usare due pesi e due misure, e cioè appellarsi alle nobili ragioni della morale quando non si condivide una legge, e a quelle implacabili del diritto quando invece la si condivide.
I solenni appelli al diritto di resistenza verso leggi ingiuste, che stiamo ascoltando da più parti a proposito del decreto sicurezza, vengono da quelle stesse persone che poi si indignano di fronte all’obiezione di coscienza di un ginecologo che si rifiuta di praticare un aborto.
Mi chiedo, però, se chi non è sensibile alle ragioni della coscienza altrui abbia poi il diritto di appellarsi alla propria.
Per una battaglia integrale a favore dei diritti umani
Non si tratta allora di muovere una critica a Orlando, ma al coro dei suoi incoerenti supporter, consapevoli che tutto ciò che diamo all’impegno in favore della vita nascente non lo togliamo ai migranti e viceversa.
Per questo trovo giusta la decisione del sindaco di Palermo in materia di accoglienza dei migranti, come ho allora trovato giusta quella del sindaco di Verona in materia di prevenzione sociale dell’aborto (in questo caso, peraltro, non si trattava di sospendere l’applicazione di una legge, ma di applicarla integralmente anche nei punti in cui incoraggia la tutela sociale della maternità). E non è solo un problema di coerenza personale, ma anche di plausibilità oggettiva di ciò che si rivendica.
Proprio perché si riferisce a tutti i nostri simili, infatti, ogni appello ai diritti umani che ne escluda alcuni perde la sua giusta forza.
Non dovremmo permettere che la nostra battaglia per i diritti umani dei migranti sia compromessa dalla stessa incoerenza che abbiamo sempre rimproverato a coloro che li disprezzano. E non c’è modo di sfuggire a questa incoerenza se non ricordandoci, insieme ai migranti, anche di tutti i nostri simili, non ancora nati, che ogni giorno continuiamo a respingere nel mare dell’indifferenza.
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