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Dimissioni e liberazione

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 20 febbraio 2013

di Joaquìn Navarro-Valls

 

A poco più di una settimana dallo storico comunicato di Benedetto XVI, l’affetto delle persone comuni è andato ad aggiungersi a quello dei sacerdoti romani e dei centocinquantamila fedeli accorsi domenica scorsa a San Pietro per il penultimo Angelus del Papa. Elegantemente, come sempre, egli non ha parlato molto della sua decisione di “rinuncia al pontificato”, come l’ha definita lunedì scorso. Sa che la cessazione anticipata dell’incarico non rappresenta più un atto incomprensibile.

Egli si è concentrato invece sulla grande tentazione che attanaglia il nostro tempo, legato oltremisura al culto della personalità e del potere: un momento di riflessione importante, in una fase decisiva e conclusiva del pontificato. Una meditazione sul nostro tempo e sui rischi che ciascuno di noi deve affrontare per vivere con criterio il presente. C’è chi ha voluto, invece, intravedere esclusivamente una critica pesante e implicita alla “sporcizia” che si aggirerebbe in Vaticano. Chi conosce Joseph Ratzinger sa bene che non può trattarsi esclusivamente di questo.

Avendo avuto la possibilità di vederlo per molti anni a lavoro, ho constatato come in lui siano sempre indissociabili concretezza intellettuale e profondità contemplativa nel considerare con distacco obiettivo i problemi sul tappeto. Si può individuare una fonte remota di questa impostazione perfino nella sua antica e incessante passione per sant’Agostino, il teologo che ha incessantemente valorizzato l’interiorità come guida sicura nella scoperta della verità. “Ciò comporta – ha osservato il Papa sempre domenica scorsa – una lotta, un combattimento spirituale, perché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e cerca di farci deviare dalla via”.

In definitiva, il male maggiore, che provoca e affligge l’epoca contemporanea, è il culto del potere, ossia la tendenza a considerare prioritario in senso assoluto l’utile individuale. L’ambizione è fatalmente sganciata da ogni criterio etico, finendo per costituire una minaccia per gli altri. È chiaro, all’opposto, che qualsiasi lavoro impone dei doveri specifici per essere fatto bene, sacrifici che si accompagnano a delle altrettanto precise responsabilità. Perché svolgere bene un compito vuol dire non solo saperlo fare, ma avere nell’agire un distacco sufficiente dal proprio Io, dalla propria soggettività. Si tratta, a ben vedere, di mettere in atto le proprie potenzialità, senza cadere tuttavia nel culto della personalità che si ha e nel potere che si detiene.

Dal punto di vista etico, insomma, è in grado di operare bene solo chi rinuncia alla tentazione di portare a termine unicamente per il personale tornaconto la propria attività, rimanendo aderente ai compiti che devono essere svolti per gli altri in quel contesto specifico. Questo discorso è particolarmente importante se riferito al più grande degli uffici, quello appunto del Sommo Pontefice, perché egli è l’immagine religiosa universale a cui guardano tutti gli esseri umani. Da un certo punto di vista, l’incarico del Papa ha delle somiglianze con ogni altro: richiede che qualcuno sia disposto pubblicamente al sacrificio di se stesso per rendersi disponibile a svolgere la mansione. Ma da un altro, il Papa sovrasta ogni altra persona perché è anche investito del compito di rappresentare l’immagine dell’eternità nello spazio contingente della storia, con tutte le incognite oggettive e tutte le fragilità individuali del caso.

 

Non stupisce, dunque, che Benedetto XVI, anche in questo frangente complicato, abbia considerato l’enorme paradosso che deve assolvere sul piano esistenziale colui cui è affidata la “guida della Chiesa”. La guida di quel miliardo e mezzo di credenti per cui un Papa deve avere una volontà eroica e un vigore eccezionale per lasciarsi dietro le spalle il mondo e assolvere, continuamente, l’incombenza “divina”.

Stando, comunque, anche solo a queste banali considerazioni, è comprensibile che le parole utilizzate domenica scorsa da Benedetto XVI siano apparse autobiografiche, sebbene probabilmente non lo fossero per niente nelle intenzioni: “Nei momenti decisivi della vita – ha osservato il Papa – ma a ben vedere in ogni momento – siamo davanti ad un bivio: vogliamo seguire l’Io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero bene, ciò che realmente è bene?”.

Certo, dinanzi ad un Papa che decreta personalmente cosa fare di se stesso, non possiamo non sentire il brivido della libertà che spinge vertiginosamente la fragilità di ognuno di noi a confrontarsi continuamente con l’immensità piccola o grande del proprio compito quotidiano. Egli, in effetti, è “il simbolo vero dell’umanità che lotta”. Ma nella sua fragile e sicura umanità noi possiamo cogliere anche l’eternità umana nella nostra veste mortale, passeggera, fragile, come lo sono le cose della vita, destinate a nascere e a morire, ad avere un inizio e una fine.

La Chiesa, d’altronde, non è esclusivamente una realtà pneumatica e invisibile. Non è cioè una comunità spirituale astratta di benintenzionati o di santi defunti. La Chiesa è un’enorme istituzione religiosa spirituale e materiale che vive nel tempo: quindi, sempre bisognosa di rettificare e di innalzare il potere umano verso la verità eterna.

Molto si è scritto e si scriverà sulla rinuncia di Ratzinger. Pur essendo evidentemente ancora presto per valutare il significato finale che assumerà una decisione così inaspettata, due cose sono sicuramente sbagliate. Ritenere che un Papa debba essere sovrumano, per il solo fatto di sostenere sulle sue spalle un peso sovrannaturale. E ritenere che la scelta specifica di Benedetto XVI sia stata un atto obbligatorio, reso necessario dalla vecchiaia e dalla malattia. No. Egli ha invitato, piuttosto, a distogliere il nostro sguardo miope dalla temporalità del potere, dagli interessi egoisti, dalla prigione dell’utilità, mostrando con il proprio esempio particolare che nessuna persona può ritenersi onnipotente senza aver idolatrato quanto di male si nasconde nella propria eccessiva ambizione e senza aver ucciso la propria coscienza. Egli ha accolto, dopo la morte di Giovanni Paolo II, un’incombenza enorme con spirito di servizio, ben sapendo che, nel preciso momento in cui accettava di diventare Papa, aveva da subito rinunciato definitivamente e completamente a se stesso, alla propria normalità di vita, ai propri legittimi desideri e ai propri legami affettivi: “Io, ma non più io”, diceva allora. È proprio quello che adesso, non più nelle sue parole ma nella sua stessa vita, tutti vediamo.

In questi anni Benedetto XVI ha fornito prova di sostenere in modo straordinario tutte le difficoltà della Chiesa, senza curvature o cedimenti. E adesso, davanti alla coscienza che le sue forze non sono più in grado di sopportare l’onere del Pontificato, egli non ha fatto altro che liberare la Chiesa dal peso mortale che sarebbe divenuto lui stesso, vale a dire la propria debolezza personale, se avesse continuato a guidarla senza forza, aprendo così consapevolmente una nuova fase della storia. Egli ha rivelato a tutto il mondo il valore personale che ha conservare una sicura indipendenza dal vertice dell’umano, anche se il costo è rinunciare a essere Papa. Un atto veramente coraggioso e grandioso, se ci pensiamo, che dovrebbe far riflettere tutti sulla scala di valori o disvalori che si mettono di solito alla base delle scelte importanti.

 

Con la sua rinuncia, quindi, egli sembra dirci che non è il potere ma l’impotenza quanto ci rende autenticamente umani. Ed è proprio la coscienza del limite che tiene aperta la porta di ciascuno al bene dell’altro. A nessuno, infatti, possono mancare le insufficienze che il genere umano ha per natura, e che è normale siano di ogni persona, anche quella di un grande pontefice. Egli ha svelato, infine, efficacemente l’importanza morale che ha, per il bene di tutti, la presenza spirituale e pubblica del Papa nel mondo, portando dentro la sovranità il divino e l’umano, lo spirituale e il temporale, le miserie e le grandezze di ognuno, una complessità che invita a separare interiormente il bene comune dal legame mortale con la forza del potere e degli interessi soggettivi.

Guardata con tale ampiezza di prospettiva, la rinuncia di Joseph Ratzinger è, in definitiva, un gesto esemplare e moralizzatore. Al contempo profondamente cristiano e profondamente umano.

 

da La Repubblica 

http://www.repubblica.it/esteri/2013/02/20/news/dimissioni_liberazione-53009430/?ref=HREC1-7

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